«Neve ci fu fino alla cavicchia, (…) e preti di qua e piovani e cappellani di là che è una vera itterizia. Peraltro me ne difesi scrivacchiando come un dannato». Così Ippolito Nievo a Carlo Gobio, nel dicembre del 1856. E a Francesco Rosati, nel luglio del 1858: «Io scrivo disperatamente; scrivo a quattro mani per pagarmi del tempo rubatomi dalla malattia e da una lunga e insolentissima convalescenza. Più ancora scriverei se stessi perfettamente bene». Questo furore di lavoro si riversa – soprattutto nell’ultimo decennio di vita, Nievo muore il 3 marzo 1861, nel naufragio del vapore Ercole, a ventinove anni – oltre che nella grande epica delle Confessioni di un italiano, in poesie, in drammi, in novelle e romanzi, in collaborazioni giornalistiche. Due importanti testi politici, Venezia e la libertà d’Italia e Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, e una settantina di articoli giornalistici vengono ora proposti nella silloge Scritti politici e d’attualità, a cura di Attilio Motta (Marsilio, euro 38,00), che esce, ottimamente curata e commentata, nell’ambito dell’Edizione Nazionale delle Opere.
Nella primavera del 1859 Nievo, che si è appena arruolato tra i garibaldini, viene sorpreso dall’armistizio di Villafranca, che prevede la liberazione della Lombardia ma non dell’amato Veneto, e scrive di getto, pubblicandolo anonimo, Venezia e la libertà d’Italia, un grido di dolore per l’amaro destino che i giochi politici europei, e italiani, stanno riservando alla Repubblica di San Marco. Nel pamphlet ripercorre tutta la gloriosa storia di Venezia, in un excursus che occupa cinque dei sette capitoli, riafferma i suoi legami con l’Italia, riconosce poi la crisi della società veneta, a partire dal Settecento, nel progressivo accentuarsi della distanza tra le esigenze della modernità e l’inadeguatezza dei governi. Loda però il tentativo di recupero delle sue virtù marinare e la ripresa dell’economia e dei commerci. Respinge con forza la mediazione di un regno veneto guidato da un arciduca austricaco o da un «napoleonide» e ribadisce, accettando soffertamente l’ipotesi sabauda, l’opzione per «uno stato solo dell’Alta Italia». L’armistizio di Villafranca è un’assurdità storica e la sua cristallizzazione – questo il messaggio che Nievo indirizza, con tono volutamente minaccioso, all’opinione pubblica europea – indurrebbe la parte più movimentista del fronte risorgimentale a sentirsi libera di proseguire l’azione cospirativa. Le cose andranno diversamente: la pace di Zurigo, firmata da Austria e Francia il 10 novembre dello stesso anno, ricalcherà i preliminari di Villafranca, chiudendo la via a ogni altra soluzione diplomatica.
Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, scritto nell’autunno del 1859 e rimasto inedito, è il momento più alto della riflessione storica e teorica di Nievo e si colloca a pieno titolo nella migliore tradizione della trattatistica politica italiana. Ha per oggetto l’analisi delle ragioni della scarsa partecipazione delle masse popolari al processo risorgimentale e i possibili rimedi per contrastarla. In un passo giustamente celebre Nievo attacca la secolare tendenza elitaria degli intellettuali italiani «a cercare l’opinione pubblica solo nei libri e nelle opinioni della gente letterata» ignorando quella «molto più vera e potente» che «sonnecchia nel cuore del popolo». L’abisso che separa i ceti colti dal «volgo campagnuolo» va fatto risalire, in altima analisi, alla scarsa attenzione che gli intellettuali hanno da sempre rivolto ai bisogni economici del popolo e ai privilegi di cui godono i proprietari terrieri: il ceto contadino ripaga «coll’indifferenza alla nostra chiamata la nostra stessa indifferenza alle sue piaghe secolari». Per il realismo con cui guarda alle miserie e alle fatiche dei contadini, Nievo supera gli stereotipi idilliaci di tanta letteratura rusticale, ma certo la rinnovata attenzione che dedica al problema della sua educazione non è del tutto esente da tratti paternalistici.
Un nodo politico centrale è il ruolo dei preti di campagna. I liberali, con il loro anticlericalismo preconcetto e generico, hanno compiuto un grave errore: «Dovevano appoggiarsi al clero delle campagne e tirarlo dalla loro per guerreggiare l’influenza vescovile e papalina. Così si accapparravano il voto di coloro che tengono in mano le coscienze del popolo rurale, e con esse la forza materiale, il braccio della nazione italiana». Hanno invece regalato i preti di campagna all’alto clero e alle gerarchie prelatizie, «che sfruttano a loro vantaggio la fede e le superstizioni».
Altro punto forte del saggio è la libertà con cui Nievo denuncia l’errore di diagnosi che ha spinto i liberali e le classi colte a investire su educazione e filantropia. La filantropia è solo «un’eloquenza assurda e sbagliata» quando, senza curarsi delle situazioni reali, predica astrattamente, a priori, la fraternità universale: «Fate degli uomini fisici e morali con una saggia economia, fatene degli esseri uguali a voi colle leggi, coi codici coi costumi, prima di far dei saccenti e dei fratelli colle chiacchere». L’originalità e la passione di questo testo si riflette nello stile, che Motta analizza da vicino, mettendone bene in rilievo la volontà nobilitante e tragica a tutti i livelli della lingua, in particolare nelle scelte lessicali, e il ritmo a un tempo mosso e compatto, sostenuto da un più marcato apporto di quei tratti dialogici e dell’oralità che sono tipici di tanta prosa nieviana.
Molto diverso è lo stile degli scritti giornalistici, che affrontano con brio i più svariati argomenti: «La divagazione ciarliera, derubricata da ogni impropria nobiltà e assunta nella sua natura sostitutiva, può liberare l’indole panoramica e frammentariamente moralistica, sostenuta dalla sotterranea tensione con un discorso politico alluso ogni volta che si può». Così Motta. Nievo fa ricorso, come si usava, a una serie di firme: «Dulcamara» (il ciarlatano dell’Elisir d’amore di Donizetti), «Todero», «Arsenico», «Sssss» (probabilmente un paradossale e antifrastico invito al silenzio), «un Sabeo», e passa da un interesse per i fatti economici, per la speculazione finaziaria, per la modernizzazione dell’agricoltura, alla satira, di stampo pariniano, delle classi dirigenti dell’epoca, criticate per le abitudini fatue e inoperose, alle divagazioni, tra il filosofico e l’umoristico, sull’amore e le fasi della luna, a resoconti sulle feste di carnevale, a sapidi giudizi sugli spettacoli teatrali e sulle messe in scena di opere alla Scala o alla Fenice.
A volte la necessaria vacuità degli argomenti, per i limiti imposti dalla censura, e l’impazienza per la stasi politica, lo fa sentire «come un leone nella sua gabbia»: «Buffonate, amici; buffonate per empire il vuoto di questi anni senza colore». Ma sul senso di inanità prevale – e Motta illustra benissimo questo aspetto – la sfida, la volontà di combattere con le idee: «Dunque crepiamo, ma scriviamo; giacché non si puo fare di meglio. La letteratura che non isfama un letterato, può nutrire una generazione e ingigantirne un’altra». È una sfida che prevede destrezza, formule sibilline e metafore ardite e brillanti, per dire quello che si vuole dire e per non finire in galera: «Idee e ciarle. Non faccio per dire, ma è proprio il mio tema. Io sono una specie d’alchimista che fa precipitare le idee allo stato di ciarle, e salire le ciarle allo stato di idee. Prudenza e destrezza, amici – Destrezza soprattutto, perché non vedano il giochetto di mano e non mi facciano smaltire al sicuro la mania dei bussolotti».