Quella di Nietzsche non è una teoria, ma la parodia di una teoria, uno scherzo sofisticato. Questa, in estremissima sintesi, la lettura offerta da Pierre Klossowski (aristocratico di origine polacca, fratello del pittore Balthus, traduttore di Heidegger e di Svetonio, pittore lui stesso, narratore, saggista, figlio di uno storico dell’arte e di una pittrice che sarà l’ultimo amore di Rilke) nei due scritti raccolti in Nietzsche, il politeismo e la parodia (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco, Piccola Biblioteca Adelphi, pp. 116, e 10,00) l’introduzione alla traduzione francese della Gaia scienza (1956) dovuta a Klossowski medesimo, e una conferenza dell’anno successivo. Entrambi contengono in nuce la teoria poi esposta estesamente in Nietzsche e il circolo vizioso, che però appare nel 1969, quando ormai leggere Nietzsche anche nella chiave «una risata vi seppellirà» e «l’immaginazione al potere» è pratica corrente, oscurando l’originalità di un gesto compiuto da Klossowski ben prima del Sessantotto. Perché questa lettura è così importante? Se sono stato più che telegrafico nel riassumere Klossowski, ora mi tocca essere prolisso.

Un pensionato tedesco, già professore di filologia classica nell’Università di Basilea gira tra Italia, Francia e Svizzera, sparandole sempre più grosse. All’inizio è una ritrattazione del gonfio romanticismo giovanile in nome di una rinascita dell’illuminismo di una spregiudicatezza neorinascimentale. Poi le delusioni della vita non controbilanciate da niente, l’ansia di riconoscimento a cui corrisponde una indifferenza totale portano a una radicalizzazione. Il professore diventa scrittore di aforismi e di poemi, profeta di una nuova religione del superuomo, teorico di una visione del mondo fatta di conflitto, potenza, sopraffazione, e persino di una nuova filosofia della storia che sostituisce al progresso (per lui, come per tanti al suo tempo, ormai convertito nel suo contrario, nel declino dell’umanità in corsa verso la catastrofe) la ciclicità di un eterno ritorno di tutte le cose. Poi tutto precipita.

Nell’autunno del 1888 il professore, da una stanza d’affitto a Torino, pubblica alcuni libretti visionari, tra cui la più immodesta autobiografia che mai sia stata scritta. Intorno al Capodanno del 1889, spedisce delle lettere al Kaiser e a Carducci, cerca di risolvere la questione dell’Alsazia Lorena, dice di essere Cesare, Alessandro, Buddha, Dio e tutti i nomi della storia, e confida che avrebbe preferito essere professore a Basilea, ma non se la è sentita di omettere la creazione del mondo. Dal 1889 fino al 1900, quando muore, non sa più niente di sé, compresa la fama che inizia a circondare il suo nome con un processo che fa di lui, oggi, il secondo filosofo più citato su Google, dopo Marx.

Sebbene dal punto di vista di vista darwiniano la sterminata quantità di lettori favorisca, in un tempo geologico, la genesi della migliore interpretazione, resta che, sempre con Darwin, il sacrestano del diavolo potrebbe scrivere un lunghissimo libro sulle aberrazioni, i controsensi, gli sprechi e le assurdità che caratterizzano il processo. Così per l’interpretazione di Nietzsche: i primi tentativi sembrano anche degli scherzi di natura, del resto perfettamente autorizzati dal testo. Cosa dire infatti di uno che sostiene che l’uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo, che la morale è un’astuzia dei deboli per soffocare l’energia vitale delle belve bionde, che l’uomo cerca la potenza prima che la salvezza, proprio come l’ameba si divide in due (ossia si annienta come individuo) per assecondare la propria volontà di potenza? Cosa dire di uno che depreca la democrazia, gli operai, le donne (specie se istruite), e vaticina che un giorno il suo nome sarà legato e una crisi senza paragoni, a una collisione di forze che la storia non ha mai conosciuto, e che, sottoscrivendo con entusiasmo degno di miglior causa il giudizio di un giornalista svizzero, pretende di non essere un uomo, ma dinamite?

La risposta che viene più naturale (dopo l’eterno «questo è un pazzo») è: «questo è un nazista». Ora, la risposta è sbagliata. Hitler nasce nel 1889, cioè proprio nell’anno in cui Nietzsche impazzisce, e il mondo in cui Nietzsche si è formato e scrive non ha niente a che fare con quello che ha reso possibile Hitler. In particolare, non c’è stata ancora la prima Guerra Mondiale, e soprattutto l’umiliazione tedesca a Versailles. Ovviamente, già nella prima Guerra Mondiale francesi e inglesi sostennero che l’ideologia di guerra tedesca si ispirava a Nietzsche, il che sulle prime appare anche legittimo se si considera che venne approntata una edizione da trincea di Così parlò Zaratustra. Ma a ben vedere anche questo è sbagliato, non solo perché è futile, se non assurdo, ricondurre i motivi che hanno generato la guerra alle smanie di un pensionato, ma anche perché coloro che hanno avuto la ventura ritrovarsi in trincea con una copia dello Zaratustra erano lì a prescindere, e non è neanche detto che lo leggessero.

È chiaro invece che per la seconda Guerra Mondiale, cioè per la guerra ideologica tra capitalismo, nazismo e bolscevismo, Nietzsche aveva il tono giusto. Così come è chiaro che i pochi mesi che vanno dall’attentato a Hitler del luglio 1944 alla resa di Berlino nel maggio 1945 sembrano davvero la catastrofe senza comune misura e senza precedenti che profetizzava come associata al proprio nome. Ma è anche chiaro che la somiglianza dipende dalla catastrofe e dai suoi protagonisti, e non da Nietzsche.

Dopo la seconda guerra mondiale, e non sorprende, c’è stato un gran dibattito tra coloro che propendevano per un arruolamento postumo di Nietzsche nelle Waffen SS e coloro che sostenevano che la belva bionda di Nietzsche non aveva niente a che fare con razze elette o corpi di élite. Avevano ragione e avevano torto entrambi. Nietzsche ha davvero parlato di belve bionde predatrici, e quelle Blonde Bestie, nella fantasia di Nietzsche, non erano dei leoni in senso zoologico (come risibilmente sostenne qualcuno) ma esseri umani, o meglio disumani. Però, quando scriveva, Nietzsche non poteva neppure remotamente immaginare che quelle belve bionde ci sarebbero state davvero, e non si fa fatica a immaginare che se le avesse viste le avrebbe condannate con un pamphlet.

Nel fervore della denazificazione si spiega anche l’edizione Colli-Montinari, opera ammirevole di per sé, ma la cui genesi poggia sull’assunto secondo cui quanto di Nietzsche ci appare inaccettabile dipende da falsificazioni dei testi. Non è vero. Nietzsche ha scritto proprio quello che ha scritto, e molto di quello che ha scritto lo ha pubblicato quando era capace di intendere di volere, e quanto ai libri pubblicati quando era demente o morto, non dicono niente di diverso da quelli pubblicati nel pieno dei suoi spiriti, o dagli appunti ordinati cronologicamente da Colli e Montinari.

Se questo è vero, però, coloro (e sono più numerosi di quanto non sia lecito attendersi) che hanno fatto di Nietzsche una specie di comunista immaginario si sono limitati a cadere in una trappola mentale ben diagnosticata da un comunista non immaginario come Lukács: visto che gli intellettuali non sono insensibili ai dolori dell’umanità, sono naturalmente inclini al marxismo; ma visto che essere marxisti impone rinunce e limitazioni che gli intellettuali non sopportano, la rivoluzione immaginaria di Zarathustra appare come un ripiego che ha il vantaggio si sembrare ancor più radicali di ciò a cui dice addio.

Ora, se c’è stata tanta crudeltà interpretativa in chi ne ha fatto un corifeo del nazismo, non possiamo neppure spingere la nostra carità ermeneutica sino a dichiarare che lui di suo sarebbe stato un comunista, o un atlantista, o un sincero democratico. Sarebbe come chiedere a Fitzgerald lezioni di temperanza al bar.
Leggere Nietzsche comporta la ricerca del brivido del politicamente scorretto, e insieme della formulazione brillante e ardita dei luoghi comuni dei nostri nonni, anzi dei nonni di Nietzsche. Capirlo davvero significa non normalizzare l’irricevibile sotto una glassa democratica, e riconoscere il commediante sotto il martire, ed è ciò che, per primo, fa Klossowski. Sotto il Doctor Faustus traspare un Felix Krull, ma disadattato alla vita, e il volto truce del Cavalier Cipolla di Mario e il Mago si manifesta per quello che è, il pagliaccio, il cazzaro, il bullo da spiaggia col mojito.

Klossowski sostiene che si tratta di una strategia deliberata di Nietzsche, io lo escludo, ma cambia poco. Trovare Clark Kent sotto Zarathustra è una agnizione benefica che si ripete tante volte nella storia (si pensi al Napoleone di Tolstoj) ma che nel caso di Nietzsche non annienta l’opera, anzi la arricchisce di un sapore nuovo, eppure presente sin dall’inizio, ma nascosto dai gusti più forti ed espliciti: «Nella garitta del Lussemburgo, Duns Scoto infila la testa nella lunetta circolare; i suoi mustacchi imponenti sono quelli di Nietzsche travestito da Klossowski.» Sono le parole con cui nel 1968 Foucault concludeva la sua recensione a Differenza e ripetizione di Deleuze. Di rimando, è a Deleuze che Klossowski dedica Nietzsche e il circolo vizioso. Lo spirito del tempo batte un colpo, o anche quattro, come nella fascetta del Super-Eliogabalo di Arbasino (1969): «Nietzsche, Adorno, Lacan, Totò).

(Ultima nota, prima di concludere. Per ben due volte, nel primo dei due saggi, Klossowski scrive che la Gaia scienza esce vent’anni dopo l’Inattuale sulla storia. Poiché questa risale al 1876, allora la Gaia scienza sarebbe del 1896. Ma come sappiamo è del 1882. Non è un errore di traduzione perché c’è anche nell’originale. Non può essere una svista di Klossowski sia perché lo scrive nella introduzione alla sua traduzione della Gaia scienza, sia perché – fateci caso nella lettura – spende alcune pagine a spiegare come nella Gaia scienza si assista al riemergere carsico di temi antichi, il che per l’appunto ha senso per opere distanti venti, e non sei anni.
Abituato per professione e presunzione ad avere teorie su tutto, su questo non ho teorie di sorta, ma solo una curiosità quasi infantile che sottometto a chi legge.)