Sabato il giuramento, lunedì la fiducia: la tabella di marcia è questa e Matteo Renzi è convinto di farcela. I ministri saranno pochi, anche perché il futuro premier ha deciso di cancellare quelli senza portafogli derubricandoli a sottosegretariati. Tutti, incluso quelle per le Riforme destinato alla fedelissima Boschi.
La trattativa con Alfano non è ancora conclusa, ma il segretario Pd ritiene che gli ostacoli non possano che essere superati. Tutti e tre i ministri Ncd manterranno le loro poltrone, inclusa quella degli Interni per Angelino il delfino. Cosa possono volere di più? Il vicepremierato. Su quel fronte il no di Renzi è tassativo: «Non posso, altrimenti si direbbe che è il governo Renzi-Alfano e questo non sarebbe accettabile». «Devi. Proprio perché si possa dire che è il governo Renzi-Alfano». Chi la spunterà? Quasi certamente Renzi, che su su questo punto non pare disposto a cedere di un millimetro.

Altro nodo non sciolto, le riforme, o più precisamente i rapporti con Berlusconi che per la tenuta della «profonda sintonia» sulle riforme passano. Le preferenze sono già state depennate dalla lista di richieste reali dell’Ncd. Resta quella di abbassare la soglia di sbarramento per le coalizioni dal 12 al 10% ma su quel fronte è Fi a ostentare massima tranquillità. I rapporti con Renzi, fanno sapere i fedelissimi, sono quasi quotidiani, e quasi ogni giorno il premier incaricato conferma che non toccherà né ritoccherà l’accordo Pd-Fi. Al momento, in sostanza, Alfano dovrebbe accontentarsi del ministero degli Interni e della riproposizione senza modifiche della stessa maggioranza che sosteneva Letta.

Il secondo scoglio è il ministero dell’Economia, ma anche lì qualche passo avanti dovrebbe essere stato fatto. La rosa dei papabili sembra ristretta a due nomi: quello di Guido Tabellini, professore bocconiano, e quello del manager Franco Bernabè, con le quotazioni del secondo in leggero vantaggio. Per quanto riguarda l’indicazione dei vari ministri, è stato e in parte è ancora quello l’ostacolo numero uno. I boatos di Palazzo spiegano da giorni l’imprevisto intoppo con la bocciatura a sorpresa del ministro su cui puntava in cuor suo sin dall’inizio Matteo Renzi: Lorenzo Bini Smaghi. Il quasi premier lo voleva perché più pronto di molti altri a impegnarsi per quello sfondamento del tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil che dovrebbe essere la vera prima linea del prossimo governo sul fronte delle politiche economiche. Ma proprio per questa ragione è sorto, o più precisamente è stato fatto sorgere, il dubbio, che un altro importante economista italiano potesse non gradire: Mario Draghi.

E’ proprio l’attenzione che tutti, a partire dalla Bce, concentrano sul nome del successore di Fabrizio Saccomanni a rendere la partita così delicata. E’ infatti vero che il presidente della Repubblica Napolitano non intende impicciarsi nella formazione del nuovo governo indicando ministri o spendendosi di persona per convincere qualcuno: ciò però non significa che il Colle sia disposto a concedere a cuor leggero il suo semaforo verde. E anche qualora lo fosse non lo sarebbe Mario Draghi.

Se c’è un nodo quasi altrettanto delicato è quello del ministero della Giustizia. Lì sarà probabilmente Berlusconi a uscire insoddisfatto dalla nomina. L’ipotesi di una sostituzione di Anna Maria Cancellieri con un guardasigilli gradito al premier circolava sin da quando Letta progettava un rimpasto. Invece ci andrà probabilmente una magistrata che al cavaliere non può piacere per il solo fatto di provenire dalla terra nemica numero 1. In pole position, a tre giorni dalla compilazione finale del listone, c’è infatti Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano. Capo di gabinetto ai tempi del ministero Martelli, non è una giustizialista, corrisponde quindi all’identikit disegnato da Alfano ieri. Non a quello che preferirebbe il cavaliere, che tuttavia dovrebbe avere il suo premio di consolazione: la conferma di Antonio Catricalà come viceministro dello Sviluppo economico con delega alle comunicazioni. Si accontenterà, soprattutto se davvero Renzi difenderà sino all’ultimo il suo disegno di “doppia maggioranza”, una con Alfano, l’altra, per riforme e legge elettorale, con re Silvio.