Può un’inondazione in Canada provocare una carenza di patatine fritte in un McDonald’s di Tokyo? La frase originale era un po’ diversa, ma questo è quello che sta succedendo davvero. Il mese scorso un «fiume atmosferico», un fenomeno meteorologico teoricamente normale, ha rilasciato quantità spaventose di acqua nella Columbia britannica, una provincia del Canada occidentale.

IL SUOLO NON ERA PRONTO ad accogliere le piogge perché impoverito dagli incendi estivi, anomali anche quelli, ennesima conseguenza dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo. Gli allagamenti e le colate di fango hanno causato morti e hanno compromesso le vie di comunicazione da e verso il porto di Vancouver, sull’oceano Pacifico.

Le ripercussioni sono state globali: non è solo il porto più grande del Canada, infatti, ma un punto di passaggio critico per il commercio asiatico e internazionale. A Vancouver, così, si è assistito a scene già viste in tante altre parti del mondo: navi in attesa di ormeggiare, accumuli di container che non si sa dove mettere, merci alla ricerca di strade alternative (poche) per giungere a destinazione.

CON LE AUTOSTRADE Trans-Canada e Coquihalla ancora chiuse, ai camion non resta che la Highway 3: ma è una via di montagna, innevata e piena di tornanti, pericolosa per gli autisti. I mezzi pesanti che oggi la percorrono sono circa tremila ogni giorno, quattro volte più del normale. Il modello di business, peraltro, incentiva a correre rischi: molti conducenti vengono pagati a seconda di quanti chilometri percorrono; più tempo ci mettono, quindi, meno soldi ricevono.

L’INTOPPO CANADESE è parte di una crisi più grande delle filiere, che per anni sono state impostate per funzionare just in time – riducendo al minimo le scorte e le attese tra la consegna dei componenti e l’avvio della produzione in fabbrica – ma che la pandemia ha stravolto. Il ritardo è diventato quasi la normalità.
Qualcuno, allora, potrebbe non ricevere per tempo il suo regalo di Natale. E i giapponesi in fila ai McDonald’s dovranno accontentarsi delle patatine formato «piccolo», altrimenti non basteranno per tutti: il razionamento delle scorte è una necessità, perché la materia prima proviene dal Nordamerica e arriva in Giappone passando dal porto di Vancouver. La carenza, sperano i dirigenti locali della celebre catena di fast food, dovrebbe risolversi in tempo per la vigilia di Capodanno. Ci sarebbe l’opzione del trasporto aereo, ma è costoso.

GLI EFFETTI DEL METEO semi-biblico del Canada occidentale si avvertiranno non solo nel Sol Levante, ma anche nei supermercati d’Italia. Ottawa è uno dei maggiori produttori ed esportatori di grano duro, ingrediente fondamentale per la pasta.

Vale quasi i due terzi del commercio mondiale di questo cereale, tuttavia la siccità e i fuochi della scorsa estate hanno rovinato i raccolti.
I pastifici italiani di solito si affidano al grano domestico, ma quest’anno anche la resa nazionale è stata bassa e ha reso necessaria un’integrazione dall’estero.

Vista però la minore disponibilità canadese (volumi dimezzati rispetto al 2020), i prezzi del grano duro sui mercati sono saliti fino ai massimi in tredici anni.
Il problema, dicono le previsioni, non si risolverà prima della fine del 2022 o anche più in là, nel 2023. Nel frattempo, i pacchi di pasta sugli scaffali potrebbero essere di meno e costare di più.