Alle 19,40 di domenica l’Esselunga di Porta Garibaldi a Milano sembrava la stazione Centrale in un’ora di punta. Le 30 casse aperte facevano fatica a smaltire le file dei carrelli stracolmi. Vuoti erano gli scaffali di carne, pasta, farina, uova, verdura, surgelati, per non parlare dei disinfettanti e dell’Amuchina. Piangente era anche il settore carta igienica, significativo emblema delle priorità degli acquisti.

Sull’onda della paura di un coronavirus che in pochi giorni ha portato l’Italia al terzo posto fra le nazioni con più contagiati, i milanesi si sono affollati a comprare il comprabile, neanche fosse stata annunciata una guerra o una carestia. Come se fossero sotto assedio si sono comportati il giorno dopo, quando hanno lasciato deserte stazioni ferroviarie e mezzi pubblici. La metropoli emblema dell’efficientismo italiano si è così scoperta fragile e vulnerabile, soprattutto ben disposta ad autorecludersi tant’è che in questi giorni Milano non sembra più Milano, ma una città chiusa in casa e disertata, non spettrale ma scansata.
Cinema chiusi (- 44% di incassi in una settimana), così come teatri, sale da concerto, musei, chiese, palestre, stadi, biblioteche, scuole, università, asili. Chiusi molti uffici.

Terminata in tono minore la settimana della moda che ha visto Giorgio Armani e Laura Biagiotti fare le sfilate senza pubblico. Chiusi i bar e i locali di ritrovo dalle 18 in poi, come se il rischio di contagio sia più pericoloso nell’ora dell’aperitivo piuttosto che durante cappuccino e brioche che, comunque, i milanesi hanno evitato in massa. I ristoranti invece possono tenere aperto perché, dicono, la distanza fra i tavoli darebbe una maggiore protezione, ma molti si stanno attrezzando per ridurre al minimo la vita di relazione.

C’è qualcosa di surreale in questa semi quarantena da zona gialla, dove si può uscire ma non vedere un film o una mostra, dove è ritenuto più rischioso andare a una conferenza che in un supermercato affollato, dove le scuole sono chiuse ma i negozi no, quasi che il diritto all’acquisto sia il limite da non valicare per non demoralizzare l’economia fino in fondo, dare una parvenza di normalità e mantenere i servizi essenziali. Vivere al minimo. In questo momento è necessario, ma svelante.

In nemmeno 24 ore è apparso evidente che è il cibo per la mente a fare di una metropoli un luogo attraente. Si possono tappezzare le vie di bar, ristoranti, negozi, ma se mancano i luoghi dove nutrire l’immaginario immediatamente manca il carburante della vita.

Senza cinema, teatri, musei e scuole l’esistenza si riduce a un sostentamento del corpo. A quel punto anche l’incontrarsi viene depauperato perché mica si può solo mangiare, acquistare o parlare di cibo. Si perde poi uno degli aspetti più affascinanti del vivere in città che è il poter decidere anche all’ultimo momento cosa fare, dove andare, che cosa vedere, chi incontrare, ovvero quel senso di possibilità infinite.

Si perdono occasioni. Lunedì sera al teatro alla Scala era previsto un attesissimo concerto di Maurizio Pollini, i biglietti esauriti da tempo. Cancellato, come ogni evento aperto al pubblico fino al primo Marzo. Certo, uno si può consolare ascoltando un disco a casa, ma sappiamo tutti che non è la stessa cosa perché è il rito dell’ascolto diretto a dare l’emozione primaria. Per contro, l’orchestra della Filarmonica lunedì pomeriggio si è spostata con un treno dell’alta velocità verso Roma, dove la sera ha tenuto un concerto, e per ora le prove d’orchestra non sono sospese, ma non è detto che possa accadere.

Si naviga a vista e alla giornata, si cambiano programmi, si spostano uscite, come quella del film di Giorgio Diritti su Ligabue «Volevo nascondermi» che, saltato il debutto a Milano e nel nord Italia, è stato spostato anche nel resto del Paese, come in un gioco del domino che mostra quanto siamo collegati, quanto siamo comunità e collettività, quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri.

Non pochi sono gli effetti sull’economia, che poi significa volumi di affari per le aziende (la Borsa milanese ieri ha perso il 5,4%), ma anche compensi per i lavoratori che non sono tutti uguali, purtroppo. Prendendo un caffè in un bar ho sentito un cliente dire alla barista: «Ieri ero a un McDonald e hanno telefonato a tutti per dire di stare a casa oggi perché avrebbero chiuso». La barista: «Ma li pagano lo stesso?». Il cliente: «Mi sa di no perché sono a giornata». Lei: «Anche a noi converrebbe chiudere perché lavoriamo soprattutto con gli aperitivi, ma se dobbiamo tirare giù la saracinesca alle 18 andiamo in perdita».

Un’altra barista ha confessato che preferirebbe si chiudesse tutto «Perché – ha detto – che ne so io se un cliente è positivo o no? E se mi ammalo e infetto a mia volta qualcuno? Dicono che muoiono soprattutto i vecchi, ma io ai miei ci tengo anche se hanno la loro età».

La grande Milano sta facendo i conti con un nemico invisibile che ha mostrato come tutto è partito da un ospedale e che i più esposti sono medici e infermieri, la qual cosa dovrebbe far riflettere sui protocolli di protezione del personale.

L’emergenza passerà, prima o poi, ma intanto sarebbe bene far tesoro di quanto detto dal dottor Vittorio Agnoletto a Radio Popolare sulle ragioni di questo contagio così diffuso in Italia: «Da un lato non si è riusciti a individuare il “paziente zero” e quindi a intervenire sulla catena di trasmissione. L’altro aspetto è che la metà dei primi quindici casi coinvolgono pazienti ricoverati e personale medico delle strutture del Basso Lodigiano. Il vulnus italiano non è tanto nell’organizzazione generale, bensì nelle indicazioni per gli operatori sanitari nei pronto soccorsi. La struttura sanitaria italiana è ridotta ai minimi termini per quanto riguarda gli interventi di primo livello: servizi territoriali e meccanismi di prevenzione soffrono di carenza di personale. La falla è individuabile lì». Adesso sappiamo quanto tutto ciò può costare.

Finito il pezzo scendo a prendermi un caffè. Accidenti, è tutto chiuso. Rivoglio la mia Milano.