Successione affrettata, certo. Al timone però va il prediletto di Marchionne, il braccio destro più accreditato. E la continuità di visione e strategia globale è assicurata.

JOHN ELKANN HA RISPETTATO la volontà di Sergio Marchionne. Mike Manley, inglese di Edenbridge, 54 anni, una laurea in ingegneria alla Southbank University di Londra e un master in business administration all’Ashridge Management College, è l’uomo del marchio Jeep. Negli Stati Uniti è riuscito a rilanciarlo, a farlo tornare il simbolo della provincia americana, della libertà di correre e far rumore e anche di inquinare a proprio piacimento.
Un successo commerciale e di strategia, figlio di un rilancio motivazionale della rete di vendita, appassita dalla crisi dei primi anni duemila.

Jeep, molto più di Alfa Romeo, è il brand su cui Fca punta forte per il nuovo piano industriale illustrato da Marchionne nell’Investor Day del primo giugno. Vengono previsti ben dieci nuovi modelli entro il 2022. «Consolideremo il marchio per resistere alla concorrenza: nei prossimi 5 anni entreremo in tre nuovi segmenti: piccoli uv (utility vehicles), dei pick up e dei grandi suv», ha spiegato lo scorso primo giugno a Balocco il manager britannico. Concludendo con un afflato forse eccessivo: «Anni di gloria ci aspettano».

LA SITUAZIONE DEL GRUPPO FCA è certo finanziariamente solida. Il «debito zero» arriverà però grazie alla vendita del gioiellino Magneti Marelli e alla finanziarizzazione spinta, vera impronta dell’era Marchionne.
Sul piano industriale la situazione è molto meno solida. Fca rimane il player globale più piccolo e il più in ritardo nella svolta verso l’elettrico. Meno di un anno fa Marchionne continuava a considerare il metano tecnologia più verde dell’elettrico e solo a giugno ha virato frettolosamente. Rispetto a tedeschi e giapponesi il ritardo tecnologico sull’elettrico è pesantissimo e rischia di condizionare i prossimi anni.

L’ALTRA GRANDE INCOGNITA lasciata da Marchionne è la mancata alleanza. Il manager col maglioncino ha sempre sostenuto che fosse necessaria per competere sul mercato, ma non è mai riuscito a portarla a termine. Da anni si parla di contatti con Ford e General Motors, falliti anche per questioni caratteriali. L’anno scorso arrivò la strana proposta cinese – Great Wall la maggior indiziata – che Marchionne non accettò. Ultimamente si è fatto il nome di Toyota. Se nessuna di queste trattative o semplici voci è andata a buon fine il motivo è da ricercare proprio nella unicità della creazione di Fca: una fusione anomala dove una azienda più piccola ha salvato una più grande. Allearsi con chi è più grande ora, significherebbe essere il junior partner, farsi in qualche modo fagocitare. E Marchionne non lo ha mai voluto. Diversa la percezione della famiglia Agnelli che invece sarebbe maggiormente propensa a prendere i soldi e farsi da parte, avendo nel frattempo differenziato i propri affari un po’ dappertutto.

In questo quadro l’Italia è sempre più residuale per il gruppo. Arrivata a pietire nove modelli dei dodici europei promessi per avere la possibilità di salvare un minimo i livelli occupazionali, ad oggi Pomigliano e Mirafiori sono gli stabilimenti messi peggio. In Campania servirebbero tre modelli per rimpiazzare la Panda, a Mirafiori (dove per non licenziare gli operai, Fca ne ha spostati oltre 500 a Grugliasco) almeno due. La «cassa» colpisce anche Melfi, mentre Pratola Serra e Cento dove si producono motori diesel sono all’allarme rosso.

LA PRIMA SFIDA DI MANLEY sarà il prossimo rinnovo del contratto aziendale. Il malcontento monta tra gli 80mila lavoratori. Se volesse dare un segnale di discontinuità dovrebbe riammettere al tavolo anche la Fiom. Quella sì che sarebbe una svolta.