Con il suo ultimo lavoro Walter Niedermayr (Bolzano, 1952) il fotografo altoatesino ritorna al tema da lui più a lungo indagato: le montagne e la loro trasformazione avvenuta con la costruzione delle infrastrutture turistiche e la diffusione degli sport invernali. Lo scorso aprile la serie fotografica dal titolo tradotto in italiano Appropriazione dello spazio – Lech 2015-2016 (Raumaneignungen Lech 2015/2016, Hatje Cantz, pp. 144. euro 39,80) è stata esposta proprio a Lech am Arlberg, all’Allmeinde Commongrouds, una semplice costruzione in legno trasformata da fienile in spazio culturale ai margini del famoso centro sciistico austriaco dai coniugi Katia e Gerold Schneider: gestori del lussuoso hotel Almof Schneider.

DALLE DOLOMITI (Die bleichen Berge, 1993), alle Montagne Rocciose del Colorado (The Aspen Series, 2013) l’interesse di Niedermayr per il paesaggio modificato dall’essere umano e il modo di riprenderlo (pellicola) e riprodurlo (digitale) in dittici o polittici, non è mai reso estraneo dal suo consumo sociale e economico, quindi dalla storia.

Il paesaggio antropizzato in alta quota con l’azione progressiva e cinica del suo sfruttamento è ripreso d’inverno da Niedermayr perché solo con la neve il paesaggio si uniforma, la vegetazione e la topografia scompaiono, e risaltano solo turisti e escursionisti insieme alle strutture necessarie per il loro divertimento sulle piste innevate. La ripresa dall’alto insieme al colore sbiadito della desaturazione, contribuiscono a enfatizzare il nostro estraniamento esaltando la distanza che ormai intratteniamo con l’ambiente naturale. A Niedermayr ciò che interessa, è «il paesaggio usato dall’uomo, che viene strutturato». In un’intervista dichiarò: «il paesaggio puro, senza riflessi umani, mi affascina poco. Forse non esiste nemmeno più».

Dopo gli esordi con il bianco e nero, desaturare l’immagine, preferire i colori neutri, in assoluto il bianco che «pulisce e dona equilibrio», non è solo una scelta estetica e alternativa nei confronti di una tendenza «troppo piena di contrasti». All’opposto ciò che risalta è la preferenza stilistica necessaria per marcare la differenza tra l’immagine e lo spazio, tra l’artificio e la realtà, ossia la volontà di segnare il limite e mostrare la complessità tra ciò che sappiamo rappresentare con un mezzo meccanico e la qualità dell’intorno che ci circonda.

CATHERINE GROUT nel suo saggio in catalogo spiega come la fotografia di Niedermayr assume un carattere politico per come sa evidenziare il nesso tra la rappresentazione del paesaggio e la cultura dominante.

Dall’«interazione di essere umani, artefatti e natura» la lettura critica del fotografo altoatesino si distacca dall’immagine iconica tradizionale della montagna mostrando come le sue trasformazioni fisiche hanno radicalmente messo in discussione i valori che le comunità delle vette hanno espresso per secoli. Il significato delle sue immagini, che le rendono così diverse da altre fotografie di paesaggio, sta in questa tensione che nasce dal contrasto tra l’occasionale del loisir e il perenne del topologico.

In questo continuo alternarsi di antinomie la fotografia di Niedermeyr si rivela strumento d’indagine vitale permettendoci, di là di qualsiasi intento documentaristico, di interrogarci sul nostro modo di vedere e di descrivere gli spazi e i luoghi del nostro agire.