L’isola che non c’è rimane nelle immagini, un po’ sbiadite, dei cinquemila tunisini che bivaccavano nel porto vecchio, attaccati con gli alimentatori ai pannelli elettrici dei negozi in via Roma, mentre tenevano in mano il cellulare in attesa di potere chiamare amici e parenti in Germania e in Svezia o in chissà quale parte d’Europa. Che si lavavano con l’acqua del mare e dormivano ovunque trovassero un riparo dal vento che soffiava forte. Quei frame, di sei anni fa, sono scolpiti nella memoria di chi a Lampedusa ha vissuto forse il momento più drammatico della sua storia legata alla migrazione di massa.

Sembra passato un secolo se si confrontano le foto di quella tragedia umana con i selfie scattati alla Casa Bianca dove la sindaca Giusi Nicolini, appena otto mesi fa, raccontava all’allora presidente Usa, Barack Obama, la rinascita di un’isola che rischiava di sprofondare nell’indifferenza dell’Europa e nell’ipocrisia del governo italiano, con l’allora ex premier Silvio Berlusconi che prometteva ospedali nuovi e comprava una villa vicino all’aeroporto per solidarietà.

DOPO CINQUE ANNI di battaglie per liberare Lampedusa da pregiudizi e dall’idea di un’invasione perenne che faceva paura e svuotava gli alberghi, Giusi Nicolini si presenta davanti al suo popolo per il giudizio di fine mandato. Di passi in avanti, è innegabile, l’isola ne ha fatti durante il governo della sindaca che prima di entrare nel palazzo combatteva brandendo il vessillo di Legambiente contro un’amministrazione di centrodestra che arrancava anche per via di alcune inchieste giudiziarie. Se non altro, Lampedusa è diventata il simbolo nel mondo dell’accoglienza mentre in altre parti del Mediterraneo c’era chi suggeriva, e lo faceva, di sparare ai barconi dei disperati. Ma quel lavoro sul piano internazionale – che ha portato Papa Francesco a urlare dall’isola il suo grido di dolore contro l’Europa ipocrita e a candidare Lampedusa al Nobel per la pace, ora sarà valutato da chi vive ogni giorno, fuori dalle logiche mediatiche, i problemi di un lembo estremo, che c’erano e ci sono: dai trasporti, al costo dei carburanti, dai rifornimenti alle infrastrutture. I 5.396 elettori oggi decideranno se Nicolini, appena cooptata nella segreteria del Pd di Renzi, potrà continuare il lavoro cominciato cinque anni fa oppure dovrà riconsegnare le chiavi del municipio di Lampedusa e Linosa.

I SUOI RIVALI sono agguerriti: Totò Martello, Angela Maraventano e Filippo Mannino. Martello, di professione albergatore, è il leader dei pescatori delle Pelagie. Storico esponente della sinistra, è stato sindaco oltre dieci anni fa. Ci riprova dopo aver scelto, due anni fa, di non rinnovare la tessera del Pd. Si presenta con una lista civica, così come Nicolini che però ha alle spalle quel poco che rimane dei dem a livello locale. Anche Filippo Mannino, assicuratore, corre con una lista civica dopo che il meetup del M5s di Lampedusa non lo ha autorizzato a utilizzare il simbolo del movimento perché tra i candidati in lista ci sono esponenti di centrodestra. La sola a correre con il simbolo di un partito è Angela Maraventano, la ‘pasionaria’. Su di lei si accesero i riflettori una decina d’anni fa quando fu eletta al Senato per la Lega nord di Bossi, voti di dissenso che consentirono alla ristoratrice di fare anche il vice sindaco nella giunta di Dino De Rubeis, il sindaco che teneva nel suo ufficio al comune una mazza da baseball nel cassetto per difendersi in caso di aggressione da parte dei migranti. Maraventano è sostenuta dalla nuova versione leghista, quella di Noi con Salvini, che le ha dato l’investitura durante la tradizionale manifestazione a Pontida.

Lampedusa è uno dei 128 comuni che vanno al voto in Sicilia, dove oltre un milione e mezzo di elettori sono chiamati al rinnovo degli organismi amministrativi e dove c’è un numero impressionante di candidati: oltre 8mila. L’isola è la regione col più altro numero di comuni coinvolti in questa tornata elettorale. Dovevano essere 129, ma il Consiglio dei ministri, sei giorni fa, ha sciolto per infiltrazioni mafiose il consiglio comunale di Castelvetrano (Tp), la città del superlatitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro che avrebbe potuto influenzare il voto.

IL PICCOLO ESERCITO di candidati ambisce a occupare una delle 1.600 poltrone disponibili nelle aule consiliari. In totale le liste sono 546, una media di oltre 4 per ognuno dei comuni. In 15 città i sindaci saranno eletti col proporzionale e vincerà al primo turno chi otterrà almeno il 40% delle preferenze come prevede la legge elettorale modificata l’anno scorso dall’Assemblea siciliana, mentre in 113 si voterà col maggioritario. Subito dopo la chiusura delle urne si procederà allo spoglio. C’è grande attesa ovunque. Fari puntati soprattutto su Palermo e Trapani, dove la campagna elettorale è stata scandita da faide interne ai partiti in coalizioni tutt’altro che compatte e inchieste giudiziarie che hanno coinvolto alcuni candidati. S’è parlato tanto di scandali e ombre più che di programmi. A incidere sull’esito del voto poi, nei comuni con oltre 15 mila abitanti, sarà il farraginoso meccanismo della legge elettorale, che prevede la doppia preferenza di genere e il voto disgiunto, tra lista e sindaco. Non sarà semplice per chi si ritroverà nella cabina elettorale la lettura della scheda-lenzuolo, dove accanto al nome dei candidati a sindaco ci saranno i simboli delle liste collegate, a fianco di ognuna una linea tratteggiata dove inserire il nome o i nomi dei candidati nei consigli comunali. A Palermo le liste sono 18.