Bisogna ringraziare la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro di quest’anno per aver concesso uno spazio importante all’opera del filmmaker francese Nicolas Rey, ospitando una retrospettiva dei suoi film più la performance su tre proiettori Opera mundi ou le temps des survêtements (expanded, 16mm, bianco e nero), per la cura del programmatore e storico del cinema Federico Rossin. Grazie a questo programma di Rossin – al festival c’erano anche le sue Lezioni di storia, appuntamento ora al suo terzo anno – è stato possibile vedere il cinema del francese per la prima volta in una rassegna in Italia (non era scontato) e si sono potuti scoprire lavori di grande complessità tecnica e tematica e di insolita bellezza formale, film che a loro modo sono in grado di porsi come contributo nel ridefinire certi parametri mentali relativi alla produzione e fruizione audiovisiva.

Il film di Rey visti a Pesaro, tutti rigorosamente in pellicola, sono stati i seguenti: il cortometraggio in bianco e nero Terminus For You (1996), uno sguardo a suo modo surreale sui passeggeri della metropolitana di Parigi; i lungometraggi a colori Les Soviets plus l’électricité (2001), Schuss! (2005) e Anders, Molussien (2012). Il primo è un cine-viaggio dell’autore nella Russia post-sovietica, «una meditazione sulla promessa non mantenuta e le fantasie ancora presenti dell’Unione Sovietica». Il secondo una analisi-saggio sulle relazioni tra Industria e Stato a partire da una sorta di ricognizione di un territorio (in questo caso una località sciistica alpina). Il terzo invece, una sorta di libero adattamento che funziona come una sorta di variazione de La catacomba molussica di G. Anders, è una riflessione senza vincoli temporali sul fascismo e le visioni della libertà. Sono opere diversissime tra di loro ma che documentano un modo di fare e di vedere simile, un’azione che va dritto al cuore delle cose e che si può forse leggere su due piani.

In primo luogo questi film dimostrano di essere lo splendido risultato di una libertà radicale nella creazione, un lusso che nessuna Hollywood o Netflix potrà mai pagare. Come scrive Rossin in uno dei testi del catalogo dedicati alla retrospettiva, parliamo di «un autore totale, che realizza i suoi film padroneggiandone tutte le fasi, dall’ideazione alla lavorazione finale. Non solo ne cura la fotografia, il suono, il montaggio, la scrittura, la regia, ma anche lo sviluppo e la stampa delle copie in 16mm.» Rey – è di formazione ingegnere – fa parte fin dall’inizio de L’Abominable, un laboratorio cinematografico parigino gestito da cineasti che esiste dal 1996. Qui lavora ai propri film e qui è possibile sviluppare e stampare in pellicola film in super-8, 16 e 35mm, attraverso un recupero e una rifunzionalizzazione di tutti i macchinari necessari alla filiera. Come dire: la possibilità di esercitare una sorta di controllo dei mezzi di produzione.

Da qui si può passare al secondo piano del discorso, la poesia. In questo caso non si tratta di rimandi al cinema di poesia teorizzato da Pasolini ma nemmeno, forse, di certe tendenze di ricerca esclusivamente visiva che si trovano in molto cinema sperimentale (c’è una ricerca visiva nel film di Rey, e molto profonda, ma quello che si vuol dire è che per chi scrive non sembra esaurire tutto il discorso). La questione, se si vuole, si può porre come teorica. I film di Rey sembrano invenzioni in grado di trasfigurare la materia trattata in maniera tale da far rilevare e percepire al loro interno una dialettica continua tra intenzionalità e presenza, dire e essere, in un senso non dissimile a quello per il quale si può intendere la poesia come linguaggio contro il linguaggio ma allo stesso tempo operazione al di qua e al di là del linguaggio stesso. I suoi film sembrano opere letteralmente aperte – alla trasformazione in atto, alla differenza filosofica, alla molteplicità. Nonostante la ricca materialità di immagini e suoni di ogni film, sembra sempre esserci qualcosa che sfugge, qualcos’altro da quello che appare. Si può prendere come prova qualsiasi lavoro. Terminus For You, per esempio, in cui verso la fine le immagini iniziano a dissolversi e la pellicola sembra decomporsi, trasformando in maniera radicale questa osservazione urbana in qualcosa che non sarebbe sbagliato definire pittura (per chi scrive qua e là sembrava addirittura di vedere un tratto à la Simon Hantai). Oppure si può considerare Les Soviets plus l’électricité. Un film pazzesco, operazione che diventa progressivamente e letteralmente una esperienza totalizzante in grado di restituire alcune delle principali dinamiche di viaggio, tra movimento e spaesamento, e sfaldare la progressione narrativa. O volendo c’è forse l’esempio più limpido, Anders, Molussien, film «aleatorio» ogni volta diverso perché ogni volta l’ordine di proiezione delle sue parti è deciso a sorteggio e può cambiare, smontando – come Rossin scrive – «la linearità fisica del supporto cinematografico».