«Chi è Nicolas Rey?» è questa la domanda che serpeggia tra la fitta ridda di critici e cinefili che ha seguito la sezione Retrospettiva a lui intitolata dal Festival del Nuovo Cinema di Pesaro e curata da Federico Rossin.

E’ il più grande poeta visivo (e visionario) vivente? come qualcuno ha detto o non può nemmeno essere considerato un regista? E’ un rivoluzionario della forma, del contenuto e dell’idea stessa di film? E’ un teorico che si esprime visivamente?

Cerco di capirlo parlandone con lui appena dopo la proiezione di Autrement, La Molussie, del 2012, rigorosamente in 16mm, suddiviso in più rulli di pellicola il cui ordine di proiezione viene determinato dal caso consegnando al proiezionista un mazzo di carte corrispondenti alle diverse pizze che lui estrae a caso.

  • Credo che il valore politico più forte di questo tuo lavoro risieda nella negazione delle convenzioni che definiscono l’idea tradizionale di film, proprio perché è in queste che si esprimono il sistema di pensiero, di produzione e le categorie estetiche dell’ideologia dominante…

La forza dell’ideologia è quella di fingersi trasparente, di far credere che tutto rientri nell’ordine naturale delle cose. Straub citando Brecht nel periodo di Rapporti Di Classe sosteneva che fosse necessario fare film che mostrino quanto il mondo sia strano, innaturale, è quell’effetto di distanziamento, di straniamento teorizzato da Brecht, rispetto a un mondo, il capitalismo ne è un esempio, che non rientra assolutamente nell’ordine naturale delle cose.

  • E’ in quest’ottica che decostruisci spesso la relazione di causalità tra suono e immagine

E’ una conseguenza del mio modo di lavorare, e degli apparati fotochimici che utilizzo, che prevedono strumenti distinti per catturare immagine e suono, il risultato finale, quindi, deve essere “fabbricato”, letteralmente, assemblato e dunque costruito da me, dalla mia volontà. Ma se Straub credeva nel sincronismo io penso, ma è solo l’altra faccia della medaglia, che sia possibile pensare alla costruzione dei due elementi come indipendenti. Una volta che questa natura di costruzione appare chiara anche allo spettatore credo che sia possibile inventare anche cose che escano dalla convenzione e lo coinvolgano in maniera più intensa.

  • Questa sorta di eversione riguarda anche i volti, colti al di fuori delle convenzioni espressive consuete, volti del tutto neutri, e per ciò aperti a una infinita interpretabilità

Il romanzo da cui è tratto, La Catacomba Molussica, di Anders, è totalmente nero, ambientato in questa cella-catacomba in cui le varie generazioni di galeotti si trasmettono storie e leggende, un semplice adattamento filmico del testo, avrebbe richiesto un film tutto nero, io, invece ho cercato di mettere in immagine la mia idea della Molussia (immaginario stato fascista). Ho fatto molte riprese di ambienti, la montagna, il mare, la città, le campagne per avere delle immagini che nell’insieme potessero raccontare un’idea di paese come me lo immaginavo. La figura umana, che sapevo non sarebbe stata centrale nel film, era comunque indispensabile, per non rendere disabitato il mio paese immaginario. Ho usato poche figure ma enigmatiche dal punto di vista di cosa facciano esattamente, e per questo variamente interpretabili. A questa rarità delle presenze umane corrisponde, nei paesaggi, la continua ricerca di tracce dell’attività dell’uomo che creino domande, cosa ci fa lì questo edificio? Chi lo ha costruito? E’ lo stesso principio per cui monto il rumore del traffico metropolitano o quel suono ricorrente di aereo sull’immagine dei campi e dei boschi, sono segni dell’attività dell’uomo che spingono a porsi domande, una modalità attiva di relazionarsi col paesaggio.

  • A leggerci i vari brani del romanzo è il tuo amico regista Peter Hoffman. Un regista che non mette in scena ma legge: una dichiarazione metafilmica sull’impossibilità di fare cinema o cos’altro?

Non c’entra l’impossibilità della messa in scena. Credo che la traduzione interlinguistica di un testo in uno diverso per natura, come l’addattamento filmico di un libro, sia un modo di snaturare la forma originaria.

Non basta tradurre la storia in immagine, bisognerebbe restare fedeli a tutta la dimensione letteraria del testo, una musica degna di ascolto non può diventare quella specie di sottofondo cui la riduciamo rispetto alle immagini di un film, la vera musica occupa da sola tutto lo spazio mentale disponibile.

Nei miei film lavoro separatamente sulla banda immagini, su quella del suono e su quella della parola, cui appartiene il testo, e che io utilizzo in quanto tale, in quanto testo, senza snaturarlo ai fini della sua traduzione filmica.

  • Questo tuo continuo infrangere convenzioni legate alla visione lascia emergere proprio l’aspetto convenzionale del vedere, il suo essere prodotto di uno specifico contesto culturale, storico

Fui molto colpito da ragazzo quando vidi per la prima volta l’Antigone, oggi Straub ritorna continuamente, fui folgorato da come avesse inserito l’inquadratura di un’autostrada nel contesto di una scena girata nel teatro antico, con tutti i personaggi con le toghe e in costume d’epoca. Mi si è spalancato un mondo perché mi ha fatto rendere conto di come ci si potesse prendere qualsiasi libertà dello sguardo, fottersene di certe convenzioni.

  • Nel film convenzionale il senso che lo spettatore attribuisce a ciò che vede e sente è un qualcosa di predeterminato, di guidato dal regista, per te sembra più un processo aperto in cui sarà lo spettatore a stabilire legami di senso mutabili e mutanti tra gli elementi

Nelle scuole di cinema ti insegnano che ogni istante deve essere perfettamente composto, facendo corrispondere il suono all’immagine e ogni singolo momento deve avere un suo senso, il che per me è una forma di riduzione a dir poco delirante, tipicamente televisiva, in cui si pretende di raccontarti ciò che stai vedendo e ad ogni istante deve avere un senso. Io credo che il senso sia un qualcosa che ha una dimensione più ampia del singolo istante. Nel singolo istante mi interessa che ci siano le sensazioni, mentre il senso è una composizione di elementi che lo spettatore realizza autonomamente, in una prospettiva molto più ampia. Per questo posso permettermi queste collisioni tra suono e immagine o tra testo e rumore eccetera.