Con un gioco di parole, un giornale francese ha titolato: Memento Maury. Non si dimentica, di certo, Nicolas Maury, regista e protagonista di Garçon chiffon, bellissimo esordio, in concorso a Cannes 2020, bloccato alla sua uscita dalla pandemia, nominato ai César per l’opera prima: riapparso in Francia a fine maggio, il film viene ora proiettato, presente l’autore-attore, ai Rendez-vous di Roma, che da anni propongono in Italia i film e i protagonisti promossi qualche mese prima a Parigi dagli efficacissimi Ren+pubblico italiano, che lo conosce per la serie di successo di France 2 Dix pour cent. Sarà l’occasione di «memorizzare» un attore singolare nel panorama francese, che alla scorsa Berlinale s’è imposto tra le dieci European Shooting Stars, premio per i migliori talenti europei di domani. «Ero il più vecchio di tutti, ma mi ha fatto un super- piacere. È un titolo super-sexy, scherza, e non ci si guadagna niente: non è l’Eurovisione!».

In Garçon chiffon, « mélancomédie » (secondo la definizione di les Inrockuptibles), il «vecchio» Maury, 40 anni, compone alla meraviglia con la sua voce canterina e i modi timidi di adulto-bambino il personaggio, sfasato e nevrotico, di un attore senza lavoro e in crisi sentimentale, per colpa dei suoi infantilismi e della gelosia ossessiva per il compagno veterinario. Personaggio che Maury s’è modulato addosso, ruolo dopo ruolo, da quando ha cominciato oltre vent’anni fa, in film di Patrice Chéreau, Philippe Garrel, Emmanuelle Bercot, Olivier Assayas, Nicolas Klotz, Michael Buch. È come se con Garçon chiffon, un’autofiction (come la definisce Le Monde) che sarebbe stata perfetta senza gli ultimi dieci minuti di troppo, Maury portasse a compimento una ricerca iniziatica che ripercorre incontri bizzarri e senza futuro, delusioni d’amore e il ritorno, nella natia Limousin, all’infanzia, cioè alla madre, interpretata da una magnifica Nathalie Baye. Madre che cova sempre il figlio, lo chiama ancora chiffon prolungando all’infinito, con il suo amore, il tempo dell’infanzia. Come riconosce lo stesso autore, è all’esplorazione di quel tempo – sensibile, dolorosa – che il capitolo finale deve la sua forza.

In un film a tutto volume omosessuale, vogliamo partire dalla mamma? Una mamma speciale come Nathalie Baye?
È stata fondamentale nel mio film: sia come persona che come interprete. Ero terrorizzato alla vigilia del primo ciak, non ho chiuso occhio. Ma quando, al primo giorno delle riprese, ho trovato Nathalie puntualissima alle 8 del mattino, mi son sentito subito rassicurato. Anzi, padrone del mondo. Avevo tutto quel che volevo, ero come un comandante di vascello. Ho cominciato a imparare, anche nella mia vita di tutti i giorni, ad avere autorità.

Come mai Nathalie Baye è così speciale in questo ruolo ?
Forse lei è più maschile di me. E io sono più femminile di lei. È vero che il risultato complessivo deve moltissimo alla sua interpretazione. Lei incarna ai miei occhi l’immagine perfetta di madre francese: emancipata, elegante, in pace con sé stessa. Quando ho cominciato a pensare al suo personaggio, mi son detto che avevo bisogno prima di tutto di ‘une femme amoureuse’. Come Nathalie, di cui conosciamo la vita dagli amori multipli e generosi.

La storia del ‘chiffon’, nomignolo materno del suo ‘garçon’ ?
È il virus nascosto che rode l’adulto in crisi: l’attimo patetico rimasto per sempre stampato nel passato del mio personaggio, colto in flagrante mentre canta in camera sua, ricoperto di veli femminili, Marilyn et John di Vanessa Paradis. La rivelazione è in un veloce flash-back, sconvolgente momento d’infanzia, riportato in primo piano dal film, ferita grande schermo d’un narcisismo agli albori: il bambino diventa lo zimbello dei cugini che lo sorprendono gridandogli ‘femminuccia’. Momento fatidico del ‘chiffonnement’, dell’umiliazione che ha rivelato a sé stesso il ‘garçon’, memoria strisciante per l’intero film su cui spalma la sua vergogna autobiografica.

Il cine-esordio è una gioia e un tormentone : qual è stato il suo obiettivo primo nel realizzarlo?
Che non diventasse solo una prova. Mi son dato tempo, è a 39 anni che mi son messo dietro la cinepresa. Avevo paura di realizzarlo troppo presto: prima dovevo ancora lavorare parecchio, essere sicuro della sceneggiatura e guardarmi un’enormità di lungometraggi. Dar vita a un film non è solo un atto di narcisismo : non è per te solo che lo fai, ma per gli altri.

Che cosa l’attrae del grande schermo?
Mi piace scrivere, osservare gli altri, dare sostanza agli istinti, alle sensazioni. E adoro da sempre le inquadrature. Mi piace inquadrare alla follia. Mi son detto perciò che il cinema sarebbe stato la mia strada: perché nel cinema c’è tutto quel che mi piace di più.

E quale cinema le piace di più?
Quello che non esiste. Che non esiste come genere, come etichetta. Cioè, un genere, se si può dire, eterogeneo. A esempio: un film di Woody Allen è un film di Woody Allen. Stop. Non è melodramma, non è commedia: è lui. È questo che mi piace nei registi, negli scrittori: quando scavano nella loro arte, un’arte personale e straniera. Altrimenti, restando ai ‘generi’, prediligo le fictions che sistemano: le situazioni, le persone … Mi piacciono gli esseri imperfetti, gli sballati : quelli a cui verrebbe voglia di urlare ‘Ragazzo mio, svegliati !’.

Lei si sente imperfetto, straniero, sballato?
Sono più che contento di trovarmi qui, adesso, all’età di 40 anni. In una situazione ormai all’indomani d’un lungo confinamento, che ci ha rimessi tutti in gioco: e ci permette adesso di eliminare ogni idea di confini, tra i generi, non solo cinematografici, tra i sessi, tra tutto. Che gioia, finalmente. E sentirsi legato al tempo presente.

Che cosa prova oggi, con questo ‘figlio’-film, che è lei stesso?
Ho ancora la memoria del parto, che è stato dolorosissimo. È stato uno dei momenti più difficili della mia vita. Quando si comincia a crescere un po’ nell’ambiente dello spettacolo, i colleghi si mostrano fiduciosi, vi stimano, talvolta persino vi ammirano. Il set è stato tutto il contrario: a ogni idea che tiravo fuori, dovevo discuterla e spiegarla. Un inferno. Anche perché avevo deciso di non mettere in mezzo nessuno con cui avessi già avuto esperienze di lavoro nel cinema.

Quando si ha a che fare con gente che non è sulla stessa lunghezza d’onda, possono nascere contrasti e battaglie a non finire. il cinema non è la mia famiglia, non è la mia tana d’amici. Per me, è solo l’incontro tra persone eterogenee, unite per un momento, da un testo o da una visione.