A suo modo romanzo di formazione, ritratto generazionale e dolente reportage dalla crisi sociale francese, con E i figli dopo di loro (Marsilio, pp. 478, euro 19,00, traduzione di Margherita Botto) Nicolas Mathieu non si è solo aggiudicato lo scorso anno il Prix Goncourt, tra i più prestigiosi premi letterari transalpini, ma ha offerto una voce inedita, insieme coraggiosa e malinconica, ai territori perduti della provincia transalpina e soprattutto ai loro abitanti.

ATTRAVERSO il complesso apprendistato alla vita di tre adolescenti, Anthony, Hacine e Stéphanie che crescono nell’Est della Francia mentre molte famiglie del luogo, comprese le loro, vedono infrangersi i sogni del futuro nella definitiva chiusura dei grandi stabilimenti industriali che hanno garantito a lungo reddito e identità alla comunità locale, Mathieu racconta con la delicatezza che si porta alle persone e alle cose care, le grandi trasformazioni del cuore operaio del paese. La sua cronaca dalla Rust-Belt francese traduce uno spaccato credibile di quella che alcuni sociologi hanno ribattezzato come la «Francia periferica», lontana dalle grandi metropoli come dai centri economici e culturali del paese – da non confondersi con le banlieue delle grandi città -, dove le speranze sembrano essere state inghiottite da un presente infinito, precario, ripetitivo. E dove l’impatto violento e irreversibile della globalizzazione ha sedimentato rancore, frustrazione e odio verso gli altri, ma, almeno in parte anche verso se stessi.

NON È UN TEMA del tutto nuovo per lo scrittore 41enne nato e cresciuto a Épinal, non troppo lontano dai luoghi in cui è ambientato il romanzo che, dopo aver studiato cinema, ha esordito nel 2014 con il noir Aux animaux la guerre (Actes Sud), un poliziesco duro e senza alcuna ricerca della redenzione nel quale prende corpo la deriva criminale di alcuni operai e sindacalisti di fronte all’annunciata delocalizzazione della fabbrica in cui lavorano. Dal testo è stata tratta anche una fortuna serie televisiva.

ANCHE PER LA SAGA SOCIALE di E i figli dopo di loro Mathieu aveva scelto inizialmente i codici del noir. «Solo che mano a mano che mi avvicinavo alla stesura del romanzo, mi sono accorto che il clima della storia, malgrado non manchino dei rimandi al noir, mi stava portando altrove e che la mia autentica ossessione per restituire in ciò che scrivo la realtà mi aveva condotto verso un altro territorio narrativo».
Per lo scrittore, il romanzo di ispirazione poliziesca concilia in ogni caso due elementi centrali. «Vengo dalla provincia e ho vissuto lì fino al diploma. – spiega Mathieu – Mio padre era un operaio elettromeccanico e mia madre una contabile. Arrivare alla scrittura con questo background può essere molto difficile, si è istintivamente intimoriti. Al contrario il noir è un genere molto popolare, che in molti si ostinano a considerare meno complesso, perciò cominciare da lì può aiutare a superare le proprie inibizioni, ad affrontare la scrittura con meno complessi». Fondamentale, nella sua esperienza, c’è però anche un altro elemento che rimanda al noir. «Si tratta dei libri che ho amato di più, quelli su cui mi sono in qualche modo formato. Soprattutto quelli di Jean-Patrick Manchette. Lui riusciva a fare politica e sociologia attraverso i romanzi, trovando anche uno splendido equilibrio tra accessibilità e qualità dello stile. Leggendo Manchette ho capito che era quello il tipo di libri che avrei voluto cercare di scrivere. Storie che testimoniano di un mondo nel quale bene e male si confondono, dove l’ambiguità morale è la regola, la corruzione dappertutto, la lotta quasi sempre persa già in partenza».

Jean Patrick Manchette

PAROLE che non devono far pensare ad una qualche forma di rassegnazione. Perché se c’è una caratteristica che colpisce immediatamente in E i figli dopo di loro, è la volontà di restituire attraverso la scrittura la voce a chi ne è stato, e ne è ancora privato.

LA DETERMINAZIONE a raccontare «la realtà», il romanzo ha avuto una genesi di due anni nei quali Mathieu ha voluto respirare pressoché quotidianamente il clima e gli umori della zona che è al centro della vicenda, prende poi la forma di un’assoluta fedeltà a quanto visto e sentito e, in primo luogo, al desiderio di non tradire in alcun modo le persone incontrate. «Posso dire che questo romanzo è letteralmente irrigato dal reale, gli odori, i colori, il clima, le marche, se un archeologo lo dovesse scoprire tra cento anni saprà datarlo con grande precisione. Volevo raccontare la fine di un mondo, quello della classe operaia e farlo restituendogli la voce e un ruolo da protagonista. Sottraendomi, in questo, all’immensa opera di camuffamento della realtà che è in corso intorno a noi. Il mio è un tentativo non solo estetico, ma direi anche politico e filosofico. In un universo che può assomigliare ad un libro di Philip K. Dick, ritrovare un po’ di Zola».