Ogni tanto capita che i designer di moda abbiamo bisogno di un attimo di riflessione e si fermano a pensare al significato del proprio lavoro. Volendo dimenticare che fanno parte di un ingranaggio talmente grande e difficile da fermare, alcuni fanno grandi rinunce, come quella di Azzedine Alaïa che due anni fa rifiutò la nomina offertagli a capo della Couture di Christian Dior per continuare a fare del proprio marchio l’emanazione autentica della sua personalità.

Altri, più semplicemente, affidano a qualche intervista, meno superficiale di quelle dove si parla degli abiti, il punto fermo che gli permette di non finire stritolati dall’ingranaggio del quale fanno parte. Nicolas Ghesquière, che un anno fa è arrivato alla direzione creativa di Louis Vuitton, ha sentito il bisogno di ricapitolare il pensiero sul suo lavoro in una lunga intervista al quotidiano Women’s Wear Daily. Un colloquio che qualche psicanalista definirebbe rassicurante per se stesso e che, però, contiene alcuni passaggi di aiuto anche per gli altri colleghi, soprattutto per quelli giovani.

Senza compromettere la sua posizione da Vuitton, Ghesquière lancia subito un avvertimento contro l’idea che molti, sia tra le aziende sia tra gli operatori dell’informazione, hanno del rispetto del famigerato DNA del marchio, vissuto come l’unico elemento che, negli anni, ha portato alla costruzione di quei «grandi classici» che il mondo identifica con il marchio stesso. «Molti dimenticano che, quando sono nati, quei grandi classici erano innovativi e hanno scioccato molte persone che erano abituate ai grandi classici precedenti.

La sfida di ogni designer è inventare delle cose che vincano la sfida del tempo», dice Ghesquière, presupponendo che il tempo, quindi, non sia immobile e che il dna sia il contrario dell’innovazione. Ma il designer, che nei 15 anni da Balenciaga ha dimostrato di saper lavorare senza copiare gli archivi, tocca anche i nervi scoperti di un momento che vede la creatività in letargo, attribuendo il lungo sonno dell’innovazione al fatto che il settore «è entrato in un ciclo troppo aziendale» in cui si pretende che «i designer conoscano la psiche dei Ceo» e non il contrario.

Considerato a 41 anni uno degli stilisti più influenti al mondo, Ghesquière indica negli anni 80, con Thierry Mugler, Claude Montana e Jean Paul Gaultier, gli anni dell’innovazione continua e in Rei Kawakubo e Azzedine Alaïa i soli veri innovatori dei nostri giorni e i sopravvissuti di una stagione che non sarà irripetibile se si saprà trovare la forza «nella fedeltà a se stessi». A patto che si abbia talento e il coraggio di esprimerlo.

La situazione della moda di oggi non è nuova. Poco prima di morire nel 1971, Coco Chanel vedeva la situazione un po’ compromessa e indicò in Yves Saint Laurent l’unico che avrebbe salvato la moda dalla dissoluzione. E aveva ragione. Ma più che un’evoluzione, Saint Laurent fece una rivoluzione, dimostrando che per mostrare il proprio talento occorre avere molto coraggio.
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