Frames of Representation, il festival che fa parte della programmazione di ICA, l’Institute of Contemporary Art di Londra, è qualcosa in più che un evento dove vedere dei film o ascoltare delle discussioni. L’idea di Nico Marzano, direttore della sezione cinema dell’ICA e fondatore e curatore di Frames of Representation è infatti quella di costruire uno spazio in cui le immagini in movimento possono «ri-immaginarsi» – come suggerisce il titolo dell’edizione di quest’anno, (Re)Imagining, che si è chiusa qualche giorno fa. E che nel lavoro del curatore è parte di un progetto più ampio, che comprende una programmazione annuale e una distribuzione d’autore.
Protagonista è il cinema del reale – nel programma c’è stato una bella presenza italiana, da Il Palazzo di Federica Di Giacomo a Re Granchio passando per Notturno di Rosi – di cui Marzano, italiano ma da lungo tempo nel Regno unito, cerca le declinazioni più «aperte», gli intrecci oltre il genere, le possibilità di un diverso linguaggio cinematografico; e in questa dimensione comune di visione, anche quelle di rivedere i ruoli degli artisti, degli spettatori, dei soggetti all’interno dell’inquadratura. Con Nico Marzano parliamo in una pausa del festival al telefono da Londra.

Il lavoro di ricerca dell’ICA si presenta come una sorta di mappatura in costante aggiornamento del cinema e delle sue tendenze oggi. Quali sono le linee che prediligi?

Al centro di questa investigazione c’è la relazione tra estetica e politica e dunque i modi e le forme con cui viene coniugata. Nello sguardo di un cineasta c’è sempre un’ intenzione politica che assume un’importanza e una forza maggiori quando non viene esplicitata come tale ma si manifesta nella ricerca formale, nei linguaggi, nel discorso cinematografico che viene messo in atto. Mi interessa esplorare la questione etica nell’opera di ogni autore che si confronta con una certa realtà: quale è la necessità che lo spinge? Con che sguardo si pone verso ciò che racconta? Quanto l’esigenza di una visione politica mette in gioco l’esistenza dell’autore, il suo vissuto, il rapporto con ciò che narra? Per farti un esempio: abbiamo aperto con A Night of Knowing Nothing di Payal Kapadia, quando l’ho visto a Cannes (era alla Quinzaine 2021, ndr) mi ha colpito moltissimo per come esprime pienamente questo legame tra estetica e politica. La storia rimanda al movimento di protesta degli studenti contro il governo indiano, ma esprime anche una visione molto sensuale, ci dice di una storia d’amore. La stessa tensione la ritroviamo in un altro film del programma, La Sangre en el Ojo di Toia Bonino, che parla delle gang in Argentina dalla prospettiva di una madre, sovvertendo i codici di un archetipo criminale e di mascolinità. Il festival è nato anche dal desiderio di creare una sorta di internazionale del cinema del reale che in Gran Bretagna non esisteva.

In che senso? Non c’è produzione di cinema del reale nel Regno unito?

Il momento attuale vede un predominio delle produzioni mainstream, le televisioni, il Bfi e la Bbc puntano su prodotti formattati, che prediligono contenuti più descrittivi pensando che così siano maggiormente accessibili a tutti. Io credo invece che il cinema dovrebbe provocare continue domande, essere motivo di un’apertura degli occhi, della mente: in questo sta il suo essere una forma d’arte che resiste e di cui adesso c’è più che mai bisogno per arginare le invasioni dello streaming. Perché che il cinema sia sotto attacco è abbastanza evidente, specie con la pandemia, ma quello che consumiamo sulle piattaforme non è vissuto mentre la scommessa del cinema è permettere un incontro e un confronto tra chi lo vive, gli autori, il pubblico. Oggi trovare spazi in sala per un certo tipo di film è quasi impossibile: con ICA ho riattivato la distribuzione, e abbiamo anche una piccolissima piattaforma a supporto di progetti come il festival. Abbiamo portato in sala autori come Wang Bing o Mariano Llina (La Flor); non è mai stato semplice ma ora è durissima, chi accetta di programmare film come questi lo fa in forma di evento unico col regista. L’effetto supermercato prodotto dalle piattaforme è molto evidente.

 

Frames of Representation come funziona? In che modo viene fatta la selezione?

Da un punto di vista teorico il festival è il risultato di un anno di studio e di ricerca non solo con le visioni dei film ma attraverso progetti di scrittura e di riflessione. Ogni anno c’è un tema, in questa edizione è stato (Re)Imagining», che mi permette di costruire un riferimento da cui partire. I venti film che presento al festival sono poi proposti in programmazione di solito tra maggio e settembre – il festival si svolge in aprile ma eravamo in lockdown quindi abbiamo rimandato. E vengono distribuiti anche fuori dal circuito londinese, in Irlanda. La scelta del tema si lega a suggestioni che ritornano nel corso dell’anno e in più film, che gravitano intorno a determinati discorsi accolti anche in ambito accademico. Abbiamo una stretta collaborazione con le università, ci sono giornate di simposi insieme ai curatori e agli studenti; ciò che è importante è la concezione della sala come uno spazio in cui corpi interagicono, anche insieme all’autore, in una relazione che può diventare fonte di ispirazione per nuove idee, per avere altri spunti di visione. Mi piace pensare che si produca e una chimica unica soltanto in quel momento. Anche per questo invito tutti gli autori al festival ma con la promessa di stare insieme a noi, di immergersi nelle giornate, di guardare i film degli altri, di parlare di vita, di cinema, di politica, d’amore.

A cosa rimanda l’idea del «ri-immaginare»?

Nel documentario o nella non-fiction suggerisce la possibilità di una manipolazione che è sempre guardata con paura o con preoccupazione. La manipolazione artistica è invece qualcosa con cui mi voglio confrontare e da cui mi piace essere sorpreso. Penso a un film come Re Granchio di Rigo de Righi e Zoppis – con cui abbiamo chiuso il festival – nel quale il cinema del reale si fa fiaba, o a Il palazzo di Federica Di Giacomo. L’affabulazione e la realtà possono coesistere, e non mostrare un certo tipo di linguaggio fa sì che ci si disabitui a questo.