Nick Waterhouse è un tipo decisamente fuori dall’ordinario. Scrive canzoni facendo attenzione a non farsi soverchiare dalle mode, segue l’istinto e un culto del bello che se da una parte gli preclude il cosiddetto «successo di massa» dall’altra gli consente di consolidare una base di fan appassionati e esigenti. Il 9 aprile esce il suo quinto album – Promenade Blue – inciso per i tipi della Innovative Leisure, anticipato dal singolo B. Santa Ana. 1986, un continuo rimando alla tradizione del soul ma senza crogiolarsi sull’effetto nostalgia. È musica per cuori puri ma che amano muoversi a tempo, dove certo il jazz è presente e spesso si incrocia delle parti del blues. Tutto terribilmente contagioso. Un cittadino del mondo, si definisce il trentacinquenne cantante, autore produttore losangelino: «Ho passato gran parte del mio tempo a girovagare e ad essere scambiato per uno che arriva da un’altra parte. Ecco, non mi è mai piaciuto cercare per forza un’identità: la trovo una concezione piuttosto superficiale. Perché dobbiamo darci una connotazione…nazionale? Soprattutto in questa era appiattita digitalmente…»

«Promenade Blue» ha tutta l’aria di una raccolta di canzoni nate per dare una sorta di speranza a chi le ascolta in questi tempi bui. Da dove nasce l’ album, realizzato durante la pandemia?

In realtà – e questo magari suona buffo – ho composto tutte le canzoni esattamente un anno prima che il mondo precipitasse nel caos. Però credo che ci sia stata qualche intuizione in fase di scrittura, molti di questi pezzi parlano di come bisogna comunque essere innamorati della vita: persone, luoghi, cose. Ecco, penso che questo funzioni come un modo per ricordare alle persone che non bisogna mai abbandonare la speranza.

Un disco prodotto da Paul Butler che nel recente passato ha messo lo zampino in dischi bellissimi, ma diversi fra loro, per Michael Kiwanuka e Devendra Banhart…

Mi trovo benissimo con Paul tanto è vero che è la seconda collaborazione con lui, avevamo già lavorato insieme nel disco omonimo del 2019. È un professionista vero ma soprattutto una persona sensibile con cui condivido molte cose. Ecco per me è fondamentale condividere emozioni, idee: trovarsi in un luogo dove comporre e suonare. Ha grandi intuizioni e sa come muoversi in studio e soprattutto come far confluire tutta questa energia in musica e farla arrivare a chi ascolta nel modo migliore possibile.

Comporre ha a che fare più con la sua sfera emozionale o cerebrale?

Può essere entrambe le cose, trovo che a volte devo cambiare binario se le cose si muovono lentamente – quasi come risolvere un puzzle che la versione emotiva di me stesso ha lasciato per la versione cerebrale di me stesso.

Pensa che l’umanità travolta dalla pandemia stia riflettendo sui suoi errori passati, dinamiche e comportamenti di vita sbagliati. Affronteremo i problemi ambientali in maniera più rispettosa o è pessimista sul futuro?

Credo che ascoltare Mose Allison da giovane mi abbia aiutato: «Non mi preoccupo di nulla perché so che niente andrà bene». Semmai questa volta mi ha aiutato a calmarmi e a smettere di affrontare ogni questione in maniera troppo apprensiva, che in genere deriva dall’aver vissuto in modo frenetico per troppo tempo. Sono riuscito a pensare molto allo stato delle cose e c’è una parte di me che spera che questo agisca come una sorta di esperienza filosofica di pre-morte per le masse, un ammonimento. Rende la luce del sole più luminosa, il cielo più blu, certe cose più preziose. Ma se è così o no, non sta a me dirlo.

«Promenade Blue» è un disco che abbraccia diversi stili, con arrangiamenti che si muovono in territori, jazz, blues. Ho trovato addirittura degli echi di blue woop. Lei non ama fossilizzarsi in un solo genere…

Sì, questa è la parola perfetta: sono anti-fossile. Credo anche che la musica «più vecchia» non dovrebbe essere trattata come se non facesse parte di un flusso di storia e di vita umana. I meccanismi in cui si muovono business e major incide anche sul modo in cui le persone la percepiscono. Mi spiego: non dobbiamo per forza catalogare ogni cosa per genere, perché l’ascoltatore/consumatore non può accostarsi contemporaneamente a Jelly Roll Morton, Celia Cruz e Sophie? La realtà è che la musica, la vera musica è arte. Ho la mia personale galassia di influenze, quindi e inconsciamente ne attingo quando compongo. Poi l’arrangiatore/produttore/band leader che è in me mette ordine a tutto, ma in realtà non si tratta di scegliere lo stile. È solo il mio stile.

Sono rimasto molto colpito dalla penultima traccia dell’album, «B. Santa Ana, 1986». Un titolo legato a un luogo e ad un anno particolare. Me ne può parlare?

Prima di tutto sono enormemente influenzato dal blues, se non si fosse capito, ma anche al modo in cui vengono concepiti i testi. Liriche intrise spesso di umorismo, e così il sottotesto di B. Santa Ana, 1986 è volutamente ironico. Quando mi sono messo a lavorare su questa piccola melodia, ho voluto annotare tutte le cose divertenti che mi sono ritrovato ad osservare in questi ultimi tempi. Ovviamente tutto in chiave scherzosa ma è una riflessione sull’assurdità di certe scene, territori e identità prefabbricate. Ho messo un po’alla berlina il mondo dei social e questa onda anomala di centinaia di migliaia, se non milioni di follower che si muovono dietro a una celebrità. Insomma, viviamo in un mondo dove la nostra vita da privata si è ormai trasformata in cosa pubblica.