«Venerdì, 24 marzo 1972. Ho trovato Nick addormentato nella sua auto. L’ho svegliato verso le 9.30 e gli ho detto che forse era meglio se andava a letto. Si è arrabbiato e se n’è andato. È tornato all’ora di pranzo, sembrava stare meglio. Sono arrivati Chris e Nancy (gli zii materni), Nick ha cenato con noi: non stava male, ma era molto silenzioso. Ho dato alle rose lo spray contro la ticchiolatura» (Rodney Drake da Nick Drake, Remembered for a While di Cally Callomon e Gabrielle Drake).
Un mese dopo l’uscita di Pink Moon, a Far Leys, la residenza dei Drake a Tanworth-in-Arden, le cose non vanno per niente bene. Forse per imporre un ordine al caos delle loro vite, proprio in quei giorni Rodney, il padre di Nick, inizia a tenere un diario. Tra il giardinaggio e la cura dell’orto, l’ex funzionario dell’Impero britannico e la moglie Molly combattono ad armi spuntate contro il disagio psichico del loro secondogenito. Le giornate si alternano fra alti e bassi, il figlio appare e scompare, spesso oppone un silenzio devastante alle premure dei genitori. Sabato 25 marzo, ad esempio, fu «una brutta giornata con Nick», che rimase tutto il giorno sdraiato per terra in camera sua, ignorando i tentativi dei genitori di farlo alzare. A volte resta a piedi con l’auto e bisogna andarlo a prendere, altre volte suona la chitarra tutto il giorno. Un mercoledì a sorpresa si alza, lava l’auto, prende passaporto e chitarra e parte senza dire niente. Un giorno si chiude in bagno per ore, costringendo il padre a rompere la serratura, impreca contro la madre, si rasserena, cena con i genitori e guarda la tv. «Che tipo straordinario», commenta il padre nel diario.

UN TIPO STRAORDINARIO
Che fosse straordinario lo sapevano anche i recensori di Pink Moon. Dall’inizio di marzo del 1972 sulla stampa cominciano a comparire le prime segnalazioni: su Record Mirror («Un talento meraviglioso ma molto fragile»), su Time Out («La voce fumosa e palpitante, un Donovan più jazzato. Purtroppo, nonostante gli sforzi della Island Records, Drake probabilmente resterà nell’ombra, il troubadour esclusivo di quei fortunati che hanno intercettato le sue introversioni da 3 del mattino») e Sounds («il grande enigma silenzioso», l’unica recensione scettica). La Island comprò pubblicità su Record Collector, Melody Maker e Rolling Stone, ma non successe niente per quasi trent’anni, fino al celebre spot della Volkswagen del 1999.
Oggi, a cinquant’anni dalla pubblicazione, cosa ci dice Pink Moon, il disco più venduto di Nick Drake? Già nel 2007, Robyn Hitchcock, intervistato per Journey to the Stars (il libro che stavo scrivendo sui testi di Drake) diceva che ormai quelle canzoni non sarebbero più invecchiate, erano destinate a essere degli evergreen. Eravamo in una tavola calda mediorientale a Charing Cross, Londra, e l’elegante supporto minimalista dell’iPod con cui stavo registrando la conversazione – gadget all’epoca futuristico e oggi obsoleto, a differenza delle canzoni di Drake – continuava a scivolare sulla formica verde del tavolo. Robyn sorseggiava un cappuccino e mangiava falafel.
«È come se un bambino di quattro anni, mentre sta giocando con dei sassi, all’improvviso ricevesse un messaggio da Marte e cominciasse a ripetere “Pink moon, pink pink pink pink pink moon”». Il piccolo idiot savant vede l’apocalisse nell’enorme luna rosa, lancia l’allarme sottovoce e quattro mesi dopo a salvarci dal disastro planetario arrivano Ziggy & The Spiders from Mars. Oggi, alla fine del secondo anno pandemico, quando alieni lo siamo diventati tutti, forse capiamo che, come noi, Nick e Ziggy erano solo diversamente marziani: Nick altissimo ed esile, una silhouette dimessa in bianco e nero, taciturno, senza più il sorriso e l’aura preraffaellita di un tempo. Ziggy, il dandy futuristico vestito da samurai spaziale da Kansai Yamamoto, che calza stivali di pvc, tutto lustrini e make up, né uomo né donna o, per meglio dire entrambi, fluido.
Nick Drake e David Bowie incarnano due opposti nel discorso sull’autenticità nella musica. Quando Ziggy entra in scena, il suo rito è la celebrazione dell’artificiale, in contrasto con l’ideologia dell’autentico, l’elemento fondante dello Zeitgeist del rock anni Sessanta: «Sul palco mi sento più un attore che un artista rock», dichiara, e in effetti per lui la musica non era nemmeno l’ingrediente principale. In Nick Drake invece è tutto tremendamente vero.

ONESTÀ BRUTALE
Come scrive Nathan Wiseman-Trowse in Dreaming England: «Parte dell’attrazione di Nick Drake sta nel fatto che attraverso la musica comunicava un travaglio interiore molto privato. I legami evidenti tra canzoni e biografia indicano un’onestà brutale che si basa sull’espressione dell’autenticità nella popular music». Drake è autentico anche quando trascende la struttura tradizionale della canzone, la narrazione musicale e una seppur vaga inclinazione commerciale, come negli episodi più scarni dell’album: i diciotto monosillabi e le quattro note ossessive di Know, e il breve strumentale Horn, puri paesaggi interiori espressionistici. Pink Moon è un disco talmente non mediato dal processo di produzione da essere solo il documento di un uomo, la sua voce e la sua chitarra. Infatti, è il modello che il produttore John Parish tiene a mente per i dischi di sola voce e chitarra acustica: «È registrato in modo così perfetto da non sembrare nemmeno registrato: è una performance intima che avviene davanti ai nostri occhi, fluida e naturale, voce e chitarra fuse in un equilibrio magico» (da Nick Drake, Remembered for a While).
Wiseman-Trowse vede in Drake la quintessenza di una melanconia tipicamente inglese, in linea con i poeti romantici. Alla base della melanconia, dice Freud, c’è una perdita che, a differenza del lutto, non è ben identificata e quindi impossibile da elaborare. Se Pink Moon è il disco più venduto della trilogia di Drake, ci deve essere qualcosa nella sua melanconia che continua a catturare chi lo ascolta, a prescindere dalle circostanze e dai tempi. Ad esempio, fu il disco in cui Amanda Petrusich, critica musicale del New Yorker, trovò consolazione dopo gli attentati contro il World Trade Center nel 2001: «Mi sono aggrappata a Pink Moon come a una zattera, stringendolo forte, rannicchiandomi al suo interno mentre tutte le persone che conoscevo si buttavano sul lavoro, l’alcol o le pasticche, per cercare di dimenticare quei corpi che cadevano giù dalle torri, esplodevano sugli aeroplani o collassavano sotto il peso di un milione di tonnellate di acciaio e cemento. Volevo consumare Pink Moon fino a farlo diventare solo mio, per poterlo tenere sempre con me, finché riusciva a tenermi in salvo» (da Nick Drake: Dreaming England di Nathan Wiseman-Trowse).

Nick Drake

 

MELANCONIA
A febbraio 2022 su Instagram, commentando un post su Nick Drake, l’utente seel_ele scrive: «Pink Moon per me è stato un’esplosione nell’anima, devastante, e allo stesso tempo un luogo sicuro come l’interno di una grotta dove rifugiarsi quando tutto intorno risuona troppo forte». Secondo Wiseman-Trowse, per la sua mancanza di specificità storica, Pink Moon «funziona come un locus su cui riversare le ansie contemporanee», tanto più se ancora oggi la melanconia è spesso scambiata per depressione. In realtà, scrive lo psicoanalista Darian Leader, potrebbe trattarsi non di una mancanza di serotonina, ma dell’incapacità di reagire a esperienze di perdita e separazione. Se i sintomi sono interpretati come segni di devianza o incapacità di adattamento, il melanconico si sentirà ancora più schiacciato dalle norme, dalla società, da un sistema che vede l’individuo unicamente come risorsa, come pacchetto di competenze da acquistare e vendere sul mercato: Drake tentò, forse per non più di mezza giornata, di diventare programmatore informatico. È quindi per la sua onesta melanconia che la sua musica è «l’incarnazione di una perdita in cui l’ascoltatore contemporaneo può tracciare il suo rapporto con le pressioni imposte dalla modernità».
Due mesi dopo l’uscita di Pink Moon, Drake entrò in un ospedale psichiatrico per alcune settimane. Nel tempo che gli restava da vivere, rimase diffidente della psichiatria e dei farmaci; dopo molti ripensamenti si sottopose a una seduta di elettroshock, confidando più nello sciamano che nella scienza. In una lettera del 1973 allo psichiatra Leon Redler, scrisse di essere stato curato per la depressione, «anche se non ho mai capito quella parola, “confusione” mi sembra più adatta».
Il diario del padre Rodney è straziante, ma ci torniamo per un’ultima annotazione. Il 5 luglio 1972, tralasciando le rose, scrive: «Finalmente bel tempo. Nick mi ha detto di aver dato al mondo quello che aveva da dare, di aver fatto più di ciò che molti riescono a produrre in una vita intera, e che un giorno la gente capirà». Pink Moon gonna get ye all.

PAROLA LORO
«Pink Moon» nelle parole di alcuni protagonisti e artisti dell’epoca e di oggi. 

Joe Boyd
Quando seppi che Nick stava registrando il nuovo solo con chitarra e voce, ci rimasi male. Pensai che stesse voltando le spalle a qualsiasi possibilità di successo. Ironia della sorte, oggi Pink Moon è il suo disco più venduto. Dopo averlo sentito non cambiai opinione: per me era doloroso ascoltarlo e l’ho fatto poche volte quando Nick era vivo. Adesso naturalmente lo considero un capolavoro, come tutti. Mentre registravamo Bryter Layter, Nick mi fece sentire Things Behind the Sun e pensai che sarebbe stata perfetta per quel disco: piaceva molto anche a Robert Kirby, che cominciò a lavorare all’arrangiamento. Ma Nick decise che il brano non era finito e rifiutò di registrarlo. Anche per questo trovo doloroso ascoltarla su Pink Moon, perché la immagino con l’arrangiamento di Kirby (che in parte è stato usato per la versione dei Luluc in Way to Blue). La mia unica rimostranza è che molti scoprono Nick e si innamorano di lui con questo album, e poi trovano sconvolgenti gli archi, la batteria, il pianoforte presenti sui primi due dischi. La gente mi scrive chiedendomi di pubblicare versioni solo voce e chitarra di Five Leaves Left e Bryter Layter, cosa peraltro impossibile perché furono registrati con tutti i musicisti in studio, senza sovraincisioni. Inoltre, Nick era coinvolto negli arrangiamenti di quei dischi, collaborava con Kirby e con Harry Robinson (per River Man). Quei dischi sono come lui li voleva, ma poi il vento è cambiato e Pink Moon l’ha preferito così.

Robyn Hitchcock
La sventura è eterna: quando Nick Drake scrisse Pink Moon, il suo destino si profilava già all’orizzonte e sembrava che la guerra nucleare avrebbe messo fine alla vita sulla terra. Oggi dobbiamo affrontare i cambiamenti climatici e la pandemia, l’apocalisse morbida. Pink Moon ha un suono spoglio che non invecchia con il tempo: potrebbe essere stato registrato in qualsiasi momento dal 1967 in poi. Il senso di alienazione di Nick Drake nei confronti dell’umanità attira le persone verso la sua musica: «Sì, nemmeno io appartengo a questo mondo». Forse siamo tutti alieni, e adesso stiamo tutti tornando a casa.

Robyn Hitchcock

 

Enrico Gabrielli
Scrivo questi pensieri su Pink Moon mentre lo ascolto in sottofondo. Ricordo che lo sentii per la prima volta una ventina di anni fa: ero a casa di Dente (credo), ero solo e guardavo fuori dalla finestra aperta, oltre la quale c’era il muro del palazzo chiuso in un cortile grigio e austero. Non erano tempi felici, e io mi trascinavo dietro qualche catena esistenziale che sarei riuscito a scassinare solo anni più tardi. Pink Moon mi apparve come un amico triste che guardava fuori dalla finestra insieme a me. Era una musica che in modo colorato e fantasioso incarnava la solitudine allo stato puro. Per fortuna io, da tipico figlio unico, della solitudine non ho mai avuto timore, anche adesso che ho una famiglia e una vita tutto sommato solare. L’esercizio della solitudine fa percepire il calore anche da un caminetto spento. Mentre scorrono le note di Things Behind the Sun, mi chiedo se la morte è un pensiero di cui aver paura, oppure se è un concetto talmente volatile da non poterlo afferrare nella sua interezza. Certo è che se il buon Nick della morte avesse avuto un pizzico di paura in più sarebbe rimasto tra noi comuni mortali. È la classica illazione di chi non si capacita che la storia ha una sua indiscussa univocità. Però in quel caso chissà quali altri capolavori avrebbe generato. Se anche si fosse ritirato dalle scene, come Mark Hollis, lo avrebbe fatto da vivo. Differenza non da poco. Il disco è finito. Andiamo in pace.

Teho Teardo
Fu Gary Mundy dei Ramleh la persona che nominò Nick Drake per la prima volta nella mia vita. Era il settembre del 1984 a Londra. Il giorno dopo trovai una cassetta in una bancarella abusiva di Camden Town: sul lato A c’era un live dei Microdisney, sul lato B Pink Moon. Titoli scritti a penna, copertina fotocopiata. Quanto è bello ascoltare un capolavoro senza rendersene conto? C’è un margine di avvicinamento che si consuma nel tempo, durante il quale Pink Moon mi è lentamente cresciuto dentro mentre diventavo adulto. Con leggerezza, senza percepire la portata di questa raccolta di canzoni sole e spoglie in cui però non manca nulla. Pink Moon è un oggetto simbolico che si espande, ingloba parti della tua esistenza per restituirle anni dopo quando la vita è ormai diversa, alcune persone non ci sono più ma continuano a roteare negli assi del suono. Avrei voluto ascoltarlo già da bambino, quando sei completamente esposto e indifeso, come mi successe con certi album che hanno concorso a modificare il mio Dna. È quanto alcuni dischi possono fare. Gradualmente, senza che ce ne accorgiamo. Essere ascoltatori cambia noi stessi e la musica.

Bridget St John
Scrivere di Nick o delle sue canzoni è inseparabile dai ricordi di quei primi tempi in cui le nostre strade si incrociarono, mentre entrambi cercavamo di trovare il nostro posto nel mondo. Non ascoltai Pink Moon quando uscì nel 1972. All’epoca non eravamo più in contatto: erano tempi diversi e le notizie giravano in altro modo. La prima volta che sentii la title-track era il 1999 e accadde per caso, quando la voce inconfondibile di Nick faceva da colonna sonora all’ormai celebre pubblicità della Volkswagen. Ricordo di aver provato un senso di gioia mista a tristezza per lui, tanti «Se solo…». Se chiudo gli occhi e ascolto l’album per intero, è come tornare al club Les Cousins, in Greek Street a Londra, e ascoltare una delle rare performance di Nick: essenziale, vulnerabile, senza il guscio di abbellimenti dei primi due album. È irresistibile nella sua semplicità e complessità, nella sua onestà. Ad ascoltarlo oggi, sapendo che la sua voce è conosciuta e la sua musica amata, provo un senso di riconoscenza, ma mi resterà sempre quel «Se solo…».

Modern Studies
Emily Scott: Quando ero adolescente avevo Pink Moon su cassetta, lo ascoltavo in cuffia, in giardino, mentre studiavo per gli esami. Mi piaceva quella voce straordinariamente pura, spontanea, vicina e intima, le melodie curiosamente esotiche e dolci, nostalgiche e invitanti. In un’epoca in cui le altre voci sembravano così piene di machismo, così tronfie, come molti altri giovani della mia età sono stata catturata dal senso di amorevole sicurezza offerto da una stella fulgida e gentile che era morta. I Modern Studies hanno influenze e gusti eterogenei, ma se penso all’origine del nostro suono, o al perché si sviluppa in un certo modo, dentro c’è sicuramente la musica di Nick: nelle melodie vocali e negli accordi sostenuti, nei tempi variabili, nei pedali ripetuti e nei testi, ricchi di osservazioni lucide e distaccate.
Pete Harvey: Ho scoperto Nick Drake attraverso i meravigliosi arrangiamenti di Robert Kirby, che per me sono un punto di riferimento per le parti di archi e la produzione. Per molto tempo ho ascoltato solo Bryter Layter e Five Leaves Left, perché per me erano più interessanti. Solo in seguito ho prestato attenzione a Pink Moon: ascoltare all’improvviso quel musicista eccellente, così esposto, è stata un’illuminazione, come quando alla fine di un libro si svela una verità che ti fa immediatamente tornare all’inizio, per rileggerlo con una consapevolezza più profonda e magica. Da allora i suoi primi due dischi mi hanno dato ancora di più: Pink Moon è stata la mia porta d’ingresso a ‘Nick Drake Level 2’. (dichiarazioni raccolte e a cura di paola de angelis)

* È autrice di «Journey to the Stars, I testi di Nick Drake», libro disponibile in ebook sul Kindle Store