«Va bene dormire sino a tardi, ma stavolta esagera». Molly Drake deve aver pensato qualcosa del genere, verso mezzogiorno del 25 novembre 1974, salendo nella camera dell’adorato figlio Nick per svegliarlo e chiedergli cosa desiderasse per colazione. Aperta la porta, vede un disco dei Concerti Brandeburghesi di Bach che gira muto sullo stereo. Il figlio giace nel letto. Non sta dormendo, è stato stroncato da un’overdose di tryptizol, potente sedativo prescritto dal medico che avrebbe dovuto recuperarlo a una vita normale, ma che invece aveva pessimi effetti collaterali come stordimento e perdita della memoria. L’autopsia archivia il decesso come suicidio.

Testimonianze successive fanno propendere per l’ipotesi che Nick Drake, sofferente di insonnia, avesse preso l’abitudine di utilizzare il medicinale in modo improprio come sonnifero. Nella camera non si trovano biglietti d’addio: solo una lettera generica indirizzata a un’amica e una copia in francese de Il mito di Sisifo di Camus, riflessione esistenziale secondo cui un senso alla vita risiede nel tentare più che nel riuscire. Il decesso, quale che siano le dinamiche, è la parola fine a un’esistenza che si andava sempre più incupendo nel viluppo della depressione. Gli ultimi mesi di Nick Drake sono un calvario, tra malinconico immobilismo e sprazzi di disperata dinamicità in cui cerca di seguire ipotesi di vita normale. Inoltra domanda per arruolarsi nell’esercito, ma si presenta al colloquio con i capelli lunghi e sporchi; il padre gli trova un posto da programmatore ma lui crolla e torna a casa dopo poco tempo. Preferisce guidare per ore, libero e solitario, talvolta restando a secco in attesa del soccorso dei genitori, ai quali confessa di star male a casa ma di non sopportare nessun altro posto.

Nick Drake a distanza di quarant’anni dalla sua scomparsa continua a essere un enigma. Scarsi gli indizi e gli avvenimenti davvero utili a spiegare appieno l’individuo, protagonista di una vita di fulminante brevità e artefice di una produzione di irripetibile classe e valore artistico. Ecco, la sua musica: sta lì quanto di più simile al vero Nick Drake potremo mai sperare di conoscere. Se ascoltando i suoi dischi possiamo parlare di folk, genere di cui amplia i confini formali da maestro, lo dobbiamo comunque fare in un’accezione intimista e raccolta. Autore lontano anni luce dalle formule «politiche» tipiche del periodo, Drake si chiuse in una cameretta a riflettere sulle sorti umane, interpretate attraverso le lenti della sua ipersensibilità e introversione. Adolescente mai diventato adulto, rivolse la sua sensibilità all’interno, fino all’estremo distacco da quanto lo circondava, incarnando un prototipo tutto britannico di cantautore colto e raffinato, che nella natura (decine i rimandi ad alberi, foglie, acqua, cielo nelle sue canzoni) cerca illuminazione e sollievo, mentre lontano da essa cede pian piano all’incomunicabilità.

La natura e il silenzio cui anela sono lo scenario che circonda Far Leys, una bella casa di campagna poco fuori Tanworth-in-Arden, villaggio nel cuore del Warwickshire dove Nicholas Rodney Drake e la moglie Molly Lloyd portano i due figli a vivere dopo lunghe peregrinazioni in Oriente per lavoro. Il padre era ingegnere per una compagnia di lavorazione del legno, così la primogenita Gabrielle (poi attrice in diverse produzioni televisive, tra cui la serie di fantascienza Ufo, trasmessa anche in Italia) nasce in India e il fratello il 19 giugno 1948 in Birmania. Nick cresce felice in un ambiente familiare protettivo e sereno; è un alunno dotato, versato nello sport e un giovane decisamente di bell’aspetto. Al liceo si cimenta con sassofono, clarinetto e pianoforte; il suo interesse si focalizza però sulla chitarra acustica, strumento cui dedica da subito ore e ore di studio da autodidatta. In quegli anni si forma il suo gusto musicale: tanto folk (Martin Carthy, Bert Jansch, John Renbourn, Donovan, il primo Dylan), blues, jazz, ma anche le nuove leve del pop, Beatles e Spencer Davis Group in testa. Sulla chitarra comincia a sperimentare tecniche sempre più complesse, basate su insolite accordature aperte e sul double-picking portato alla ribalta proprio da virtuosi come Jansch e Renbourn. La voglia di conoscere il mondo lo spinge con gli amici prima a fughe clandestine verso Londra e poi in autostop in Belgio, Germania e Francia. Durante una visita in Marocco leggenda vuole che canti in un locale con Mick Jagger tra il pubblico. Nell’autunno 1967 ottiene l’ammissione al prestigioso Fitzwilliam College dell’università di Cambridge, dove si iscrive al corso di letteratura inglese. Inizia ben presto a disertare le lezioni per restare nella sua stanza a perfezionare la tecnica chitarristica. Ormai è completamente preso dalla sua vocazione: è uno dei tanti musicisti in erba attivi in quel fertile ambiente universitario, tutti più preoccupati di affinare il proprio stile che di seguire le lezioni. Nel novembre ’67 avvia la collaborazione decisiva per l’evoluzione del suo disegno musicale: avvicina Robert Kirby, pure lui studente a Cambridge, impegnato nell’approfondimento dell’opera di Debussy. I due lavorano subito bene e in modo proficuo. I brani cui si dedicano sono la prima produzione ufficiale di Drake: River Man, Way to Blue, Day is Done e The Toughts of Mary Jane.

Nick inizia a presentare in pubblico le quattro composizioni supportato da un gruppo, messo in piedi da Kirby, che arriva a contare anche 12 elementi, di solito tutte ragazze con strumenti a corda tranne una flautista. Il suo nome inizia così a farsi conoscere e, dopo le esibizioni nei locali di Cambridge e dintorni, giunge il giorno del debutto in grande stile: riceve l’invito a esibirsi alla Roundhouse di Londra, punto di ritrovo prediletto della gioventù londinese alternativa. Mettendoci piede, Nick compie un passo senza ritorno lungo un sentiero di sfide emotive che, con ogni probabilità, non è attrezzato ad affrontare. Tra il pubblico c’è Ashley Hutchings, bassista dei Fairport Convention, letteralmente ammaliato dalla figura e dall’ottima tecnica di Nick, tanto da correre dal produttore Joe Boyd per parlargli del promettente ragazzo. Al resto provvede un nastro con quattro pezzi e il gioco è fatto. Drake ottiene un contratto con la Island ed entra in studio a luglio ’68 con a fianco un Boyd magnifico nell’interpretarne i desideri. Joe, già produttore dei primi singoli dei Pink Floyd, rinuncia a sfumature acide e preferisce catturare un timbro vocale caldo senza inutili riverberi. Five Leaves Left è un esordio stellare che assume le sembianze country di Time Has Told Me, di imprevedibili mantra (Cello Song, Three Hours), di folk jazzato (Saturday Sun), raggiungendo picchi stratosferici con la nebbiosa e delicata River Man, la dolente Fruit Tree e una soave The Thoughts of Mary Jane. Il disco è nei negozi il 1° settembre 1969, purtroppo con una zavorra micidiale: mancano potenziali 45 giri trainanti. La Island punta allora sui concerti, unico canale promozionale rimasto. Che si rivela subito inadatto, perché Nick è troppo riservato, timido e perfezionista (passa minuti a riaccordare lo strumento tra un brano e l’altro) per catturare l’attenzione del pubblico. Quando il chiacchiericcio e il rumore dei bicchieri nei folk club dove si esibisce diventa insopportabile, addirittura se ne va senza proferir parola. Intanto in lui si annulla il confine tra riservatezza e depressione. Si chiude in casa a Londra a sballarsi con l’hashish e fissare per ore il muro.

Malgrado un primo riscontro commerciale non incoraggiante, Boyd persevera e così esce, nel novembre ’70, Bryter Layter, secondo lp con sonorità più pop. Le successive schiarite cui, nel gergo dei meteorologi inglesi, allude il titolo non riguardano purtroppo le vendite, che si attestano sulle 3mila copie, mentre in quei giorni il compagno di scuderia Cat Stevens sbanca le classifiche con Tea for the Tillerman. Un colpo di grazia che getta il ragazzo sempre più in prostrazione. Da possibile rampa di lancio, Londra diviene una gabbia opprimente e gli appuntamenti live veri e propri psicodrammi. Nick non ce la fa più a sopportare tutto questo. Si avvia lungo un vicolo cieco poiché, comunque, ambisce a una popolarità che non arriva. Conseguenza logica ripiegare sulla famiglia, tornare a casa e imbottirsi di antidepressivi.

Con un ultimo sussulto sforna un terzo lp, Pink Moon, una tra le più raggelanti istantanee personali di tutti i tempi («In caduta rapida e libera, cerchi di trovare un amico. In caduta rapida e libera, questa potrebbe essere la fine» canta in Harvest Breed). Un disco di autoanalisi così lucida da incutere brividi, un tono cupo, sonorità scarne e sofferte. Il fatto che l’opera più simile al carattere dell’autore sia l’unica priva del suo volto in copertina (al posto delle foto di Keith Morris, un quadro surrealista di Nigel Waymouth) è l’ennesima particolarità che rende inaccessibile la personalità di Drake. Dal lato vendite il disco affonda ancor più dei precedenti. Nel febbraio ’72 impazzano progressive e glam, e così dell’apparizione della «Luna Rosa» se ne accorgono davvero in pochi. Diventerà pian piano l’articolo più venduto di Drake, in concomitanza con la sua riscoperta a partire dagli anni Novanta grazie a un costante passaparola e all’inaspettato supporto di spot pubblicitari di Nike, Bmw e Volkswagen che hanno brani di Pink Moon come colonna sonora.

Adesso Nick ha tutta l’attenzione mancata quand’era in vita: articoli di copertina, documentari, un special radiofonico della Bbc con la voce narrante di Brad Pitt. Da personaggio sconosciuto Nick Drake sta assurgendo a leggenda per il misterioso fascino del personaggio e per la qualità dei versi e della musica. Per certi versi è incredibile, perché la storia di questo ragazzo ha poco a che spartire con la fama; è piuttosto la storia di un grande artista che amava dissolversi nella sua musica, tanto che, quando non ha più avuto suoni in cui sparire, non gli è rimasto che sparire per sempre.