Warren Ellis al piano, gli altri Bad Seeds schierati al loro posto, immobili, in attesa. Nick Cave entra ed aspetta che si spenga la risonanza dell’ultimo accordo. Poi, dopo aver preso coraggio, inizia a cantare con voce dolente, contratta: «Il bel vento è calato e questo dolce mondo è molto invecchiato. Tutte le cose che amiamo le perdiamo». È dal luglio del 2015 che piange la morte del figlio Arthur. Lo ha fatto con un disco luttuoso come Skeleton Tree, poi con un film-intervista – One More Time With Feeling – in cui si metteva paurosamente a nudo in una costruzione narrativa e cinematografica dalla natura scabrosa: trasformare in arte il dolore per la perdita di un figlio.

A gennaio 2017 l’anziano rock’n’roller (come si definiva già nel 2003 in Babe, I’m on fire) è tornato sul palco e ha elaborato la morte del figlio adolescente davanti a decine di migliaia di persone. Il tour, partito con qualche comprensibile incertezza in Australia, è proseguito negli Stati uniti e si è chiuso in Europa a fine novembre, passando anche per l’Italia.
Distant Sky – il film-concerto diretto da David Barnard al cinema solo per una sera il 12 aprile in contemporanea mondiale in 500 sale di tutto il mondo (www.nexodigital.it), riprende la data del 20 ottobre 2017 alla Royal Arena di Copenhagen, davanti a una folla composta e sorprendentemente quasi del tutto priva di cellulari, oggetto del demonio contro cui Cave si scaglia durante l’apocalittica Red Right Hand.

Tutte le canzoni diventano monologhi di un attore consumato che in scena mette se stesso e la sua tragedia, consapevole della sua situazione grottesca. Quando afferra una mano protesa dal pubblico e se la mette sul petto, chiedendo «Lo senti il battito del mio cuore?», implorando con la maschera stravolta del suo viso singolare, tra il pubblico qualcuno ride e lui sembra quasi uscire dalla parte. Nick Cave sa di essere, come Macbeth, «un povero attore che avanza tronfio e smania la sua ora sul palco». Sia lui sia noi sappiamo che sta recitando, ma non per questo quello che vediamo è meno vero.

Che cos’è questo spettacolo? È mettersi volontariamente sotto la lente del microscopio e lasciarsi scrutare con complicità ma senza compassione. Durante il bis cade definitivamente la parete già molto traspirante fra artista e pubblico. Weeping Song è il momento eucaristico del «prendete e mangiatene tutti»: Cave fende la folla, si fa issare sul perimetro del banco mixer, c’è il momento michelangiolesco della «Creazione di Adamo» (vuoi che a Copenhagen non ci sia una donna dalla chioma bionda e fluente a cui stringere la mano, per di più con una blusa bianca che aiuta la fotografia?). Con Stagger Lee il pubblico sale sul palco nella baraonda finale e in Push the Sky Away, l’inno conclusivo, Nick Cave canta «Alcuni dicono che è solo rock’n’roll, ma ti arriva fin dentro l’anima».

Per due ore è stato l’incarnazione dell’artista che aveva tutto e ha perso tutto, ma non se stesso e la sua Arte. L’abbraccio con un ragazzo del pubblico è la versione laica di «scambiatevi un segno di pace» e «ite, missa est». Questa sconvolgente intimità non è l’ultimo passo dell’avvicinamento di Nick Cave al suo pubblico: il prossimo esperimento lo vedrà incontrare i fan in una serie di conversazioni intitolate So, what do you want to know? «Da un po’ vado pensando che mi piacerebbe parlare con la gente delle cose. Non la classica intervista, forse più un dialogo utile, in cui poter parlare direttamente con loro, in modo personale. Ormai con il nostro pubblico sembra esistere una sorta di «comprensione», ha detto.

Quattro date a fine aprile e inizio maggio sono già fissate negli Usa. Rispetto all’esperienza del concerto, Distant Sky è inevitabilmente asettico, come volutamente più pulita è stata la performance rispetto ad altre date più carnali e scomposte, ma restituisce la sensazione di aver assistito a un evento che lascia il segno e ti cambia perfino, in modo inaspettato. Una regia più sporca e creativa avrebbe forse fatto arrivare qualche schizzo di sangue e sudore, ma i rocker di mezza età prediligono l’eleganza. E la ferocia.