Uno zoo urbano dalle tonalità apocalittiche, questa è la prima impressione che si ha entrando nella galleria Edwynn Houk a Fifth Avenue, nel cuore pulsante dall’apparenza più sfavillante di New York. Le grandi fotografie a colori della serie The Empty World (in mostra fino al 20 aprile) di Nick Brandt (Londra 1964, vive in California) – la monografia è pubblicata da Thames & Hudson (febbraio 2019) – restituiscono frammenti visionari di un mondo artificiale che, nella realtà, appartengono ad una terra antichisissima. E’ la terra dei Masai, in Kenya, scenario in cui il fotografo ha lavorato per sei mesi (ce ne sono voluti due solo per realizzare le immagini notturne). “La macchina fotografica era fissa,” – spiega Brandt – “non si tratta solo di una cosa vera, dal punto di vista fisico e tecnico, ma nell’immagine finale per me esprime integrità emozionalmente ed esteticamente. Poi, essendo un progetto legato all’ambiente tutti i materiali utilizzati per la costruzione del set sono stati riciclati e nella terra dove abbiamo fotografato, secca e polverosa, abbiamo piantato semi perché potesse diventare da pascolo.” Proteggere e presevare il prezioso ecosistema dell’Africa Orientale tra Kenya e Tanzania è anche un obiettivo concreto per Nick Brandt che nel 2010, insieme all’ambientalista Richard Bonham, ha fondato Big Life Foundation, un’organizzazione no profit che combatte il bracconaggio, favorendo le condizioni per l’incremento e la crescita di animali domestici e selvatici. “Questo è l’unico posto in Africa in cui la popolazione di elefanti e leoni è in aumento.”

Nelle fotografie surreali, seduttive e ambigue di This empty world, precedute dal libro Inherit the Dust (2016), la costruzione del racconto prevede la presenza umana. Come è cambiato nel tempo il tuo modo di vedere la natura?

La scorsa settimana su una rivista francese è uscito un articolo su questo lavoro. Nel titolo si parlava di vision pessimiste. No, no, no… c’est la vision réaliste! Non è questione di pessimismo, ma proprio di realismo. Ciò che si vede è, simbolicamente, quello che sta succedendo oggi in Africa orientale, anche ad una certa velocità. Quando ho finito Inherit the Dust ho sentito che la mia esplorazione non si era conclusa e che l’invasione umana della natura stava continuando in maniera rapidissima, lì dove per millenni l’habitat era stato solo degli animali.

In On This Earth (2001) che raccoglie il tuo primo nucleo di immagini in bianco e nero scattate in Africa Orientale – nonché primo volume della trilogia con A Shadow Falls e Across the Ravaged Land – nella ricerca di uno spazio ravvicinato in cui definire l’immensità e la potenza degli animali africani hai provato anche un senso di frustrazione?

Penso che in quei ritratti ravvicinati degli animali – che oggi non faccio più – il senso di perdita di eminenza sia dato dal modo di ritrarli nella stessa maniera delle persone, come i ritratti fatti in studio con una luce sobria e piatta che dà quell’effetto d’intimità e morbidezza che sembra farli provenire da un’altra epoca.

In This empty world, invece, la luce è soprattutto notturna…

La maggior parte delle foto sono notturne, ma ce ne solo anche alcune scattate di giorno. Ho scelto la notte per due ragioni, perché non avevo mai fotografato di notte a colori. Ero affascinato esteticamente dall’idea di fotografare quegli animali in una maniera che non avevo mai visto prima, con una luce umana innaturale che s’impone sul mondo naturale. Il colore dell’invasione dell’uomo! Luci rosse o arancioni della strada in costruzione, luci fluorescenti, insegne del distributore di benzina…

Si percepisce anche un metaforico senso di costruzione e distruzione…

Soprattutto le fotografie notturne, in un certo senso, sono distopiche. Molte immagini raffigurano gli animali nelle trincee. Nelle mie fotografie del primo periodo, invece, gli animali sono incornicati dal cielo, esprimono nobiltà e dignità, Qui è come se gli animali fossero risucchiati dalla terra e gli uomini si portassero via grandi spazi dell’ambiente. La marea del progresso sta facendo diminuire la presenza degli animali. Nelle trincee questi animali appaiono spesso in uno stato di ansia e allarme. Ma è veramente importante capire, guardando le foto, che gli uomini ritratti non sono gli aggressori, ma sono essi stessi vittime del degrado dell’ambiente, soprattutto i poveri che provengono dagli ambienti rurali. I nemici veri – i politici, gli industriali e il mondo della finanza che cercano profitti in tempi brevi – sono fuori dalla scena. La gente ritratta nelle foto è vittima, non controlla il proprio destino. In alcune immagini c’è un senso di perdita e melanconia che viene condivisa tra umani e animali.

Tutto è nato quando, nel 1995, hai diretto in Tanzania il video Earth Song di Michael Jackson. In particolare cosa ti portò a decidere di far diventare quella terra anche un po’ la “tua Africa”?

L’Africa orientale è veramente uno degli ultimi posti al mondo dove è possibile vedere varie specie di animali lungo l’orizzonte. In altre parti del mondo la fauna è così ridotta che non c’è quest’esperienza di meraviglia. Ma adesso ho finito con l’Africa, il mio prossimo progetto è sui cambiamenti del clima in America, uno dei più grandi problemi che oggi riguarda l’umanità.

Qual è stata la tua esperienza nel lavorare con grandi interpreti della musica, tra cui Michael Jackson (Childhood, Earth Song, Stranger in Moscow, Cry) e Moby (Porcelain)?

E’ un’altra storia, un’altra carriera. Risale a un quarto di secolo fa… quando ero giovane.

Qual è per te il rapporto tra immagine fissa e immagine in movimento?

Non c’è alcuna relazione (sorride). Dopo anni come regista in cui ho cercato di esprimere la mia preoccupazione nei confronti della natura e degli animali, l’immagine fissa – anche se sfortunatamente il pubblico della fotografia è notevolmente ristretto – è stato il modo immediato per farlo. Questa è la bellezza della fotografia.

Hai studiato pittura e film alla Saint Martin’s School of Art a Londra…

Sì, ma penso di essere molto più influenzato dai pittori che dai fotografi. Soprattutto in The Empty World, dove mi sono ispirato alle incisioni di Gustave Doré. Potrebbe sembrare strano, ma la foto del distributore di benzina è proprio L’Arca di Noè di Doré incorniciata dal cielo.

Nella tua fotografia, dove tutto è perfettamente costruito, la ricerca sembra essere molto importante…

Assolutamente sì. Io e il mio art director abbiamo dedicato molto tempo all’esplorazione del territorio intorno a Nairobi, sia per trovare la location che nel momento della costruziore del set. Sono una persona che controlla tutto, ma sono stato costretto a mettere da parte il controllo soprattutto nella prima fase del lavoro, perché gli animali dovevano essere fotografati da lontano. Anche se il set era stato disegnato illuminato siamo stati costretti ad aspettare che gli animali si sentissero a loro agio per poter scattare in quella luce che avevamo creato. Anche nella seconda fase il controllo è stato relativo, perché abbiamo costruito la scenografia portando sul set persone che non erano attori professionisti. Mi piace quella sensazione del non essere in posa, proprio come nella street photography dove si entra e si fa un clic. Deliberatamente aspetto che la gente sia più rilassata, o addiruttura annoiata, così colgo l’imprevisto. Trovo che quello che succede nella vita vera sia più interessante anche di ciò che catturo con la mia stessa immaginazione.