La sigla è una soggettiva di drone sullo sterminato hinterland di Los Angeles: il Southland, groviglio di desiderio e disperazione intrecciato di interminabili freeways, la topografia straniata da cui spuntano palme, cactus e vite storpiate. La Colonna Sonora è Nevermind di Leonard Coen che canta «Travestito ho vissuto fra di voi; ho scavato tombe che non troverete mai». Così comincia la seconda attesissima serie di True Detective di Nic Pizzolatto – dal 22 giugno su Sky Atlantic in contemporanea con gli Usa (alle 3 della notte tra il 21 e il 22 giugno in v.o. con sottot. e in replica lo stesso giorno alle 22.10) – che cambia location e dalla Louisiana southern gothic passa al noir californiano. Come annunciato cambiano anche cast e personaggi. Motore della narrazione è una losca faccenda di illeciti in atti pubblici, quelli accaduti a «Vinci», una minuscola municipalità all’ombra di LA che amministratori corrotti e collusi usano alla stregua di una società fantasma per pilotare sovvenzioni federali e investimenti equivoci verso appalti pubblici. Nell’indagine si incrociano un poliziotto motociclista, ex contractor in Iraq con sindrome traumatica (Taylor Kitsch), una agente dello sheriff’s department dai retroscena conflittuali con la famiglia benestante/new age (Rachel McAdams), un boss della mala in procinto di riciclarsi nella rispettabilità politica (Vince Vaughn) e Colin Farrell, un «cattivo tenente», amareggiato da una vita che gli ha tolto ciò che aveva di più caro. Incontriamo l’autore Nic Pizzolato. Ci accoglie pallido e un pò teso, provato dai doppi turni in sala di montaggio per finire gli otto episodi di True Detective. Prima c’è stata la stesura della sceneggiatura e le settimane sul set. Anche se non sta dietro la cinepresa, uno showrunner è una sorta su super-regista: presente e responsabile di ogni fase della lavorazione. Il lavoro è massacrante, e i tempi televisivi non perdonano. Ma quando parla del suo lavoro Nic Pizzolatto, 40 anni si illumina e si distende.

Da dove si ispira?

Credo che le storie vengano dal luogo dei sogni. Si assorbe il mondo e alcune parti di esso ti colpiscono. Trovo che il luogo sia indivisibile dall’identità. Ognuno influenza il mondo in cui vive e su cui proiettiamo le nostre vite. In questo caso molto proviene dalle mie esperienze in California. Poi mi sono documentato sul funzionamento delle amministrazioni pubbliche, le città.

La sua trama ricorda lo scandalo di analoga corruzione a Bell (città vicino Los Angeles, ndr). L’ha ispirata? 

In realtà quei fatti sono accaduti quando avevamo già completato la sceneggiatura, una singolare coincidenza. D’altra parte credo che ovunque si guardi, non è difficile trovare casi di corruzione…

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In Italia noi naturalmente non me sappiamo nulla…. 

Appunto – credo che ovunque basta appena scalfire la superficie e trovi subito Gomorra.

Lei è un appassionato di California noir? 

Un tempo lo sono stato. Ormai le mie letture si sono ridotte quasi a zero perché ho tempo solo di scrivere. Però sì, pensavo ai noir americani. La California è stata una fonte ricca di ispirazione per la mia trama, ad esempio sul caso di Bell che ha citato ed uno simile a Vernon. Poi si è trattato di ricamarci sopra un po’.

Torniamo un attimo al genere. Cosa significa per lei «noir» si trova a suo agio con le sue convenzioni? 

Sì, anche se ormai ha una definizione così ampia che bisogna capire di cosa si parla. Per me indica uno stato d’animo più che i valori formali di una determinata estetica che usava la luce e le ombre in modo espressionista. Quelle erano espressioni formali di contenuti esistenziali, a loro volta reazioni all’idea sorta qui fra le due guerre mondiali del caos dell’orrore che possono manifestarsi ovunque d’improvviso. I gialli dell’epoca trasponevano quelle angosce su scala individuale, all’esperienza umana. Non voglio raccontare esclusivamente storie di malfattori poliziotti. Se non in quanto studi intimi sui personaggi connessi ad una trama principale.

E comunque rieccola alle prese con dei detective… 

Sì, perché un detective per definizione entra in contatto con persone di varia estrazione sociale, e quindi come personaggio è un veicolo ideale per accedere a molti ambienti diversi dai più privilegiati ai più disagiati. Poi il loro mestiere è fare domande, che in senso lato è ciò che fa ogni essere vivente. Ti poni delle domande e non hai risposte definitive, solo indizi e impressioni che devi cercare di mettere assieme in una narrazione coerente. E così un detective usando solo frammenti e l’intuito deve poter assemblare la storia di cosa è successo, fino a giungere, a una catarsi.

Coi noir classici le sue storie hanno in comune un senso diffuso come di silenziosa disperazione. Trova sia un sentimento giustificato anche dal nostro presente? 

Direi proprio di sì. Le mie storie di svolgono in luoghi dove la Rivelazione, in senso biblico, è già avvenuta. Il mondo è già finito e nessuno si è preso la briga di accorgersene. E ora eccoci ancora qui con tutta la nostra tecnologia e quella sensazione angosciante di stare su un treno impazzito, senza sapere dove siamo diretti. Intanto sullo sfondo c’è la rovina postindustriale del nostro paese che segnala la fine dell’impero. La morte della classe media, lo sconvolgimento economico globale. Quindi la disperazione silenziosa deriva da questo improvviso, intimo rapporto con la catastrofe che ormai costituisce il nostro linguaggio quotidiano.

Una fine dolorosa, soprattutto perché arriva da un luogo che ha sempre raccontato di essere l’incarnazione del futuro… 

Certo. Il West è il luogo dell’eterna reinvenzione, giusto? Vieni quaggiù, cambi nome e puoi rifarti una vita. Ma che aspetto ha il West quando alla fine si esaurisce?