Cultura

Ngugi wa Thiong’O, le parole spezzate della gabbia coloniale

Ngugi wa Thiong’O, le parole spezzate della gabbia coloniale«Ode-Lay Mask» di John Goba.

Intervista Parla lo scrittore keniota, considerato una delle voci più autorevoli dell’Africa. Autore del saggio «Decolonizzare la mente» (Jaca Book), rivendica la scelta di non scrivere più i suoi romanzi in inglese, ritenuta la lingua di un imperialismo postcoloniale e culturale che tiene ancora in scacco un intero continente

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 23 luglio 2015

«Nella vecchia scuola, gli insegnanti ci parlavano di re africani, come Shaka e Cethswayo. Accennavano alla conquista e all’occupazione bianca in Sudafrica e Kenya. Invece ora l’accento cade su esploratori bianchi come Livingstone. Impariamo che i bianchi avevano scoperto il monte Kenya e molti dei nostri laghi, compreso il lago Victoria. Nella vecchia scuola il Kenya era un paese di neri. In quella nuova, si dice che il Kenya, così come il Sudafrica, era scarsamente popolato prima dell’arrivo dei bianchi e perciò i bianchi avevano occupato aree disabitate. I bianchi avevano portato la medicina, il progresso, la pace». In Sogni in tempo di guerra, autobiografia sugli anni dell’adolescenza che lo avvieranno, primo della sua famiglia, agli studi superiori e poi all’università, Ngugi wa Thiong’O racconta del passaggio delle logiche imperialiste all’interno di una mente integralmente colonizzata. Non è un caso, allora, che uno dei più importanti lavori di Ngugi porti il titolo Decolonising the Mind: The Politics of Language in African Literature.

Ngugi, romanziere e saggista keniota, classe 1938, tra le voci più autorevoli della letteratura africana, lo elaborò a partire da alcune conferenze tenute nel 1984, in occasione del centenario della Conferenza di Berlino, che segnò la spartizione dell’Africa a vantaggio dell’Europa coloniale. La pubblicazione in volume avvenne nel 1986, tre anni prima del crollo del Muro, sempre di Berlino. Da allora, il lavoro di Ngugi non ha perso attualità, avendo nel frattempo suscitato una riflessione, con tanto di letteratura critica sul tema, anche fuori dai circoli degli africanisti. Nella traduzione di Maria Teresa Carbone, Decolonizzare la mente. la politica della lingua nella letteratura africana (pp. 125, euro 14) è adesso disponibile anche per i tipi delle edizioni Jaca Book.
Abbiamo incontrato Ngugi nel corso di una presentazione milanese di questo suo importante lavoro.

La lingua – leggiamo nelle prime pagine di «Decolonizzare la mente» – è da sempre al centro di una contesa che attraversa tutta la questione africana nel XX secolo. Imperialismo e asservimento, da un lato. Tentativi di autocoscienza dall’altro. In un certo senso, dal paraocchi imposti ai lavoratori africani, per piegarli sull’aratro e farli lavorare senza che potessero vedere alcun orizzonte, siamo passati a paraocchi molto più raffinati, che ognuno si mette da sé…

Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che anche da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente.

Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo postcoloniale: il linguaggio. In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di «studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. Questo fatto ha avuto un impatto sull’assetto geopolitico e geoculturale dell’Africa. In questa prospettiva imperialista, studiare significa, allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito. Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfuttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica. Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le altre identità, e crea diversità come ricchezza. E siccome la ricchezza piace molto a sistema del capitalismo, pre e post coloniale, hanno deciso di prosciugare i pozzi.

Non è cambiato nulla, rispetto al passato, nemmeno con la decolonizzazione. Eppure, in venti anni – tanti ne sono passati dalla prima edizione in lingua inglese del suo lavoro – si è acceso un dibattito…

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Oggi, il dibattito sulla lingua africana e sulla «lingua» delle classi medie è molto vivo, esistono esperienze virtuose, di intellettuali e scrittori che vivono negli Stati Uniti o in Europa e mantengono connessioni con intellettuali o scrittori che lavorano e scrivano nelle lingue locali. Però, dobbiamo prestare molta attenzione. Dietro la maschera, la realtà è ben diversa. Mai come oggi, infatti, la borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento. La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi. Oggi questo imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza. Intendo dire, che di questo imperialismo è intrisa l’aria che si respira e sottrarsi, oggi, è difficile, per via delle catene immateriali che legano anima e mente.
In tutto questo, chi ha tenuto vive lingue e tradizioni, rinnovandole, sono state le popolazioni povere, i contadini dei villaggi…

La borghesia non dico piccola, ma piccolissima, i contadini, i braccianti e la gente povera hanno continuato a parlare nelle lingue africane, a pensare nelle lingue africane, a vivere con le lingue africane. Questo ha fatto sì che fosse mantenuta viva un’altra comunità, parlante le lingue locali. Questa comunità parlava ma non scriveva in queste lingue. La lingua dei colonizzatori è diventata una prigione linguistica. Infatti, i conquistatori sono stati conquistati. Alienazione e conquista della nuova lingua hanno creato il dispositivo del dominio indiretto: la padronanza dell’inglese costituiva il titolo d’accesso all’élites dei domesticati.

Questo non è accaduto ad alcuni autori di lingua francese, penso a Aimé Césaire, accusato di «rovinare la lingua dominante,» fatto che comunque rispondeva a una precisa strategia, una vocazione minoritaria per dirla con Gilles Deleuze. Non a caso, i francesi parlarono di «petit nègre», qualificando così il gergo e il francese parlato dagli ex schiavi, originari dell’Africa ma oramai «impiantati» nelle colonie d’Oltreoceano…

Dobbiamo fare due distinzioni. Gli africani deportati come schiavi sulle isole caraibiche o in America hanno avuto l’esperienza di una lingua bandita. Non hanno più potuto utilizzare la loro lingua, perdendo tutte le connessioni col continente. Hanno così creato una nuova lingua o delle nuove lingue, mischiando ricordi delle loro lingue d’origine con i frammenti di quello che stavano imparando delle lingue nuove. Questa ibridazione che conduce a un linguaggio nuovo l’abbiamo vista anche a livello musicale, pensiamo alla nascita del jazz o del blues che, a loro volta, hanno avuto un’influenza sullo sviluppo della letteratura. Altra, invece, è la situazione di chi è rimasto in Africa e si è trovato imprigionato nelle nuove lingue coloniali. Questi africani che hanno abbandonato, almeno da un punto di vista culturale, la loro lingua per parlare e scrivere lingue coloniali si trovano di fronte alla vera grande sfida, la sfida di tornare a casa, di riconnettersi con le lingue locali e da qui potrà iniziare la seconda parte della grande sfida: creare nuovi rapporti con le altre lingue e le altre culture europee e mondiali.

Lei ha scelto di non scrivere più in inglese…

Ho scelto di non scrivere più, se non per la forma-saggio, in una lingua che cresce sulla morte delle altre lingue. Come lingua di comunicazione la uso, ovviamente. Ma una lingua non è solo comunicazione, è molte cose altre – stratificazione di immagini in un immaginario, ad esempio, come scrivo in Decolonizzare la mente.

La mia decisione di scrivere in lingua kikuyu la presi in prigione, in una cella di massima sicurezza. Venni arrestato il 31 dicembre 1977 e liberato il 12 dicembre del 1978. La ragione del mio arresto era legata al lavoro che stavo facendo, nel teatro di una comunità locale. Rappresentavamo un testo che avevo scritto e quel testo era in gikuyu. Scrivere e fare teatro in una comunità locale era possibile solo servendosi della lingua di quella comunità. Il 16 novembre del 1977, il governo vietò la rappresentazione di Ngaahika Ndeenda (Mi sposerò quando vorrò), questo il titolo della mia pièce. Questo provvedimento e la successiva carcerazione mi portarono a riflettere, in maniera più approfondita, sul rapporto diseguale fra lingue locali e lingua coloniale. Da questa riflessione nasce la mia decisione di scrivere in gikuyu.

Gli scrittori che hanno fatto qualcosa per la loro lingua sono fonte di continua ispirazione per me. Penso a Dante, sul quale spesso ritorno. In epoca di latino imperante, Dante scelse il toscano e in quella lingua inscrisse il futuro. A chi gli rimproverava di non scrivere in latino, lingua dell’universale, Dante replicava – in latino – che il toscano era una scelta consapevole, meditata, precisa.

Anche io, nel mio piccolo, ho fatto la mia scelta. Posso parlare in inglese, come sto facendo ora, tenere lezioni, scrivere ancora saggi in inglese, ma non è questo il punto.

Il gikuyu fa di me un combattente. Ho combattuto così contro le politiche del governo, violente, intolleranti o semplicemente dettate dall’inerzia. Ma la mia lingua ha fatto di me quello che sono: un guerriero consapevole, un combattente pragmatico che difende le sue scelte. Amo le lingue, la differenza nelle lingue. Da Petali di sangue in poi, ho deciso che la mia narrativa l’avrei scritta solo in gikuyu. Lo stesso era accaduto per il teatro e la poesia. Questo non ha impedito la circolazione dei miei lavori. Proprio questo ha fatto sì che venissi tradotto, là dove prima «semplicemente» scrivevo.

«Decolonizzare la mente» è comunque scritto in inglese, non è una contraddizione?

Continuo a scrivere in inglese la mia saggistica, per ragioni pragmatiche e strategiche. In questo periodo, sto scrivendo soprattutto poesia. Ho pubblicato un lungo poema in lingua gikuyu con il testo a fronte in inglese. Quando mi chiedono di scrivere qualcosa per i paesi africani, un saggio o una commemorazione – ne ho scritte per Nelson Mandela e Nadine Gordimer – al testo in inglese aggiungo sempre una poesia in gikuyu, pretendendo che il testo gikuyu rimanga, accanto alla traduzione inglese. Voglio che il gikuyu, anche in traduzione, lasci una traccia, sia una pietra d’inciampo, faccia in qualche modo da segnavia, ricordando: ecco da dove siamo partiti, ecco dove siamo arrivati, ecco dove stiamo andando.

Lei dirige un importante centro di letteratura comparata, conosce bene anche il lavoro sulla traduzione…

La traduzione è la lingua comune delle lingue. Se esistesse una lingua universale-plurale, questa lingua non si chiamerebbe «inglese», «francese» o quant’altro, si chiamerebbe, semplicemente, «traduzione». La traduzione ha contribuito a forgiare le diverse lingue del mondo. Pensiamo al Rinascimento, quando in Europa si accese una vera e propria gara a tradurre nella propria lingua i grandi libri della tradizione. Si passava dal latino alla lingua locale, ma con un procedimento di apertura, non di chiusura. La traduzione è questo processo che apre.

Oggi, per le lingue africane e «minoritarie» in genere, il problema può essere molto pratico: un editore non trova sul suo territorio qualcuno che sia debitamente formato per tradurre oppure può trovare il percorso troppo dispendioso. Si stanno moltiplicando, anche in Italia, i casi di traduzione di traduzione…

Come ha detto, il discorso può essere molto pratico. Ma da pratico tende a farsi educativo e politico costituendo, di fatto, un’altra trappola per il linguaggio. Questo vale anche per le lingue africane, non esistono scuole di formazione – ecco un altro lascito del periodo coloniale – per la traduzione dalle lingue europee alle lingue africane. Le lingue africane venivano semplicemente date per perse. I grandi scrittori locali, che scrivono in inglese, non sono tradotti nelle lingue africane, e questo è un grande paradosso se vogliamo parlare di letteratura africana. Provate a rivolgervi a un’ambasciata o a un centro culturale istituzionale per chiedere: «mi può segnalare un traduttore dal gikuyu?». Vi risponderanno terrorizzati e sdegnati al contempo. Basterebbe questo piccolo esperimento, per capire che la questione è fortemente politica, non solo tecnica. Coloro che conoscono davvero e a fondo le lingue africane sono i missionari. Altri sono africani emigrati in Italia, che hanno imparato l’italiano, io stesso ne conosco almeno due, ma fanno tutt’altro mestiere. Questo ci riporta alla nostra questione: abituati come siamo a pensare e concepire in maniera fissa, irrevocabile, l’asse del mondo, vorremmo a parole aprirci alle differenze ma non le sappiamo cogliere anche se sono a portata di mano.

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