Nel testo canonico della letteratura inglese del tardo Seicento, The Pilgrim’s Progress, il protagonista Christian compie un viaggio allegorico in forma di sogno, dalla città della distruzione alla città della salvezza, incontrando una serie di ostacoli e tentazioni che metteranno a dura prova la sua fede e porteranno gradualmente alla purificazione della sua anima. Proprio un brano tratto da questa opera viene letto ai ragazzi della Alliance High School di Kikuyu, vicino Nairobi, dal direttore Carey Francis, detto il Grande Disciplinatore, con l’intento di paragonare il loro percorso in quell’istituzione scolastica al viaggio di Christian verso la redenzione e la buona condotta. Ngugi Wa Thiong’o, brillante studente della Alliance attorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non a caso sceglie uno dei numerosi luoghi attraversati da Christian per il titolo del suo memoir Nella casa dell’interprete, datato 2012 e appena tradotto da Maria Teresa Carbone (Jaca Book, pp. 228, e 20,00).

Un anno di carcere
Il riferimento è al parlatorio polveroso in cui approda Christian ripulito da colui che rappresenta la Legge e da una donna che vi getta acqua personificando il Vangelo; ma «la casa dell’interprete» appare, da subito, come la metafora della vita artistica e professionale dell’autore keniota, formatosi nella prima scuola secondaria per africani del paese, poi all’Università Makerere in Uganda, e, acora, a Leeds nel Regno Unito. Era docente di letteratura inglese all’Università di Nairobi quando venne incarcerato, nel 1977, in quanto oppositore al governo del dittatore Daniel arap Moi. Fu rilasciato l’anno dopo e costretto a un esilio forzato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove tutt’ora vive.
I suoi romanzi, le opere teatrali e la saggistica lo hanno reso uno scrittore di fama mondiale, più volte candidato al Nobel, e il tono provocatorio e incisivo della sua voce critica, punto di riferimento per le questioni storico-culturali e linguistiche di ambito coloniale e postcoloniale, si trasmette anche al memoir, centrato sul periodo trascorso alla Alliance High School, dal 1954 al 1958. Ngugi definisce la scuola come «l’unico lascito della fase solidale e magnanima delle missioni»: era stata fondata nel 1926 da varie chiese missionarie presenti nel paese grazie al finanziamento di una fondazione statunitense impegnata nel sistema di istruzione ottocentesco per i nativi americani e gli afroamericani. Ma le visioni educative che vi si impartivano erano in tutta evidenza opposte e contraddittorie: «la nozione di autonomia e l’obiettivo di produrre neri dotati di senso civico che avrebbero lavorato entro i parametri dello stato razziale esistente».

Le ragioni del fallimento
Sia in America che nei paesi africani di dominazione britannica quel sistema non ebbe sempre gli effetti desiderati e Ngugi espone con chiarezza le ragioni del fallimento. Il protagonista-narratore è orgoglioso di far parte della scuola, dove si consumano le sue prime grandi esperienze di vita e di conoscenza, le amicizie, la letteratura, il teatro, dalla messa in scena di Shakespeare alla collaborazione al giornale della scuola, la partecipazione alla vita religiosa, fino alla scoperta di classici fondamentali per la sua particolare sensibilità (Emily Brontë, Tolstoj, Jerome K. Jerome, Stevenson). Nonostante definisca questo luogo un vero e proprio «santuario», c’è un continuo andirivieni fisico e mentale fra la scuola e il villaggio di provenienza, fra l’atmosfera pacifica e disciplinata di un ambiente chiuso e protetto e la situazione politica e sociale tumultuosa del fuori, di una nazione che raggiungerà l’Indipendenza di lì a poco (nel 1961) e si trova già in una fase di grande cambiamento.

La ribellione dei Mau Mau era iniziata nel 1952 e in quell’anno era stato dichiarato lo stato di emergenza dal governo coloniale con forti limitazioni alla vita della popolazione nera e una dura repressione. Il fratello di Ngugi si era arruolato nella resistenza e viveva nascosto nelle foreste: tutto il testo è percorso dal pensiero delle sue sofferenze. Confluirà poi nei protagonisti e nelle vicende del suo celebre romanzo Un chicco di grano, uno dei migliori esempi di racconto della nazione postcoloniale.

La messa in discussione del potere e dei suoi rappresentanti coinvolge anche lo studente Ngugi fin dalla timida contestazione dell’insegnante di inglese, secondo il quale occorreva parlare una lingua semplice come quella di Gesù, apprendendola dalla Bibbia. La lettura del memoir fa riecheggiare numerosi brani dei più noti saggi critici dello scrittore keniota, riferiti in particolare al tema dell’educazione coloniale. Come spiega in maniera elaborata in Decolonizzare la mente, la lingua diviene strumento di potere e si allea con le strutture educative, le quali, come un Giano bifronte, per un verso contribuiscono alla crescita culturale del territorio, ma per l’altro rivelano le ambiguità e gli elementi pericolosi di separazione e discriminazione razziale. La scrittura postcoloniale si trova a definire sé stessa posizionando il linguaggio e la tradizione letteraria del colonizzatore al centro della propria sfera d’indagine: basti pensare a Derek Walcott, a Salman Rushdie, a Wole Soyinka, a Chimamanda Ngozi Adichie. Dopo aver letto romanzi in cui «l’imperialismo era normale, la resistenza all’imperialismo era immorale», Ngugi decide di avviarsi ad analizzare i libri con maggiore spirito critico, dal momento – scrive – che «nessuno rifletteva la mia condizione di nero».

Un decisione radicale
La scoperta di quello che è divenuto un classico della letteratura sudafricana di lingua inglese, Piangi, terra amata di Alan Paton, datato 1948, portò Ngugi ad avvicinarsi ad altri autori che avevano scritto sul tema della razza e del colore, da Nkrumah, leader di un Ghana appena divenuto indipendente e che aveva molto influenzato i movimenti nazionalisti delle altre colonie africane, a Jomo Kenyatta, W.E.B DuBois, Peter Abrahams. Ma la sua scelta, maturata durante la prigionia e a seguito di una pubblicazione in lingua kikuyu, scomoda al governo, sarà più radicale: deciderà di continuare a scrivere le sue opere nella lingua madre e solo poi tradurle in inglese. In quel dato momento storico, Ngugi avvertiva con forza la distanza fra lo scrittore e il suo popolo imposta dalla lingua del colonizzatore, e per farsi mediatore e interprete fra le due lingue e le due culture sentì di dover essere in grado di parlare alla sua comunità, non escludendola tramite l’uso di una lingua straniera.

Per spostare il centro
In tutto il suo memoir è crescente, a tratti emozionante, la consapevolezza di questo giovane figlio dell’educazione coloniale e di un Kenya ormai indipendente, che riflette su quale debba essere il suo posto nel mondo, quali i suoi orientamenti politici e culturali, quanto sia necessaria una battaglia per lo spostamento del centro verso un pluralismo culturale. È questo il tema dei saggi di Spostare il centro del mondo, datato 1993, dove Ngugi ribadisce il fatto che il sapere locale non è un’isola ma parte dal mare, il mare lo influenza ma non può sommergerlo, annullarlo, perché l’isola deve essere visibile, deve poter affermare la propria presenza.