«Possiamo diventare il Dna dell’America del futuro». Dando il via alla cerimonia d’inaugurazione, sulle scale foderate di tappeto blu del municipio di New York, Harry Belafonte ha cristallizzato l’atmosfera che, dopo otto anni di Rudolph Giuliani e dodici di Michael Bloomerg, accoglie il nuovo sindaco della città, Bill de Blasio. «Oggi è l’inizio di una nuova era, di un viaggio trasformazionale. Abbiamo visto l’America lottare con la propria coscienza per diventare il meglio di stessa. Credo che le basi del compimento di quel destino siano qui a New York. Per questo non dobbiamo permettere che Bill de Blasio fallisca. Abbiamo tutti molto da fare, mettiamoci al lavoro», ha detto l’attore e attivista afroamericano.

«Con la sua famiglia Bill de Blasio rappresenta il futuro di questa città e del nostro paese», gli ha fatto eco, anche se in tono meno militante, Bill Clinton chiamato a officiare il giuramento di de Blasio (che aveva lavorato al ministero dell’abitazione durante la sua presidenza e diretto la campagna di Hillary al Senato). Dalla bibbia di Roosevelt usata per il giuramento, alle molteplici citazioni di Fiorello La Guardia, al discorso battagliero della nuova public advocate Letitia James e del nuovo comptroller, Scott Stringer, la promessa di un nuovo corso è stata unanime. Lou Reed e John Lennon (Imagine) facevano parte della colonna sonora e sul palco è stata anche invitata Dasani, la dodicenne homeless protagonista di una serie di seguitissimi articoli che il New York Times ha appena dedicato alla drammatica situazione dei senzatetto.

«Sognare in grande non è appannaggio esclusivo dei privilegiati. È nostro dovere, in municipio, fare sì che i quartieri siano sicuri, le strade pulite e i trasporti pubblici funzionino. Ma abbiamo una missione più profonda: mettere fine alla diseguaglianza sociale ed economica che minaccia di distruggere la città che amiamo», ha esordito de Blasio nel suo breve discorso. Annunciando l’inizio di «una nuova era progressista», l’ha però anche collegata alla tradizione di Franklin Roosevelt e dell’amatissimo sindaco Fiorello La Guardia. E ha garantito: «La mia promessa di mettere fine al racconto di due città, non era retorica elettorale. È il mio obbiettivo e lo raggiungeremo insieme».

Il nuovo sindaco ha quindi annunciato alcune delle iniziative che intende affrontare subito – l’estensione del numero di giorni pagati per i lavoratori in malattia, la costruzione di abitazioni a costi moderati, lo stop alla chiusura degli ospedali, l’apertura di nuovi ambulatori, la riforma del dipartimento di polizia e l’istituzione di asili e dopo scuola gratuiti da finanziarsi con un aumento delle tasse di chi guadagna più di mezzo milione di dollari all’anno («un aumento pari a circa tre dollari al giorno, ovvero il costo medio di un cappuccino alla soya da Starbucks»). Facendo appello allo spirito battagliero dei newyorkesi, de Blasio ha ricordato le grandi crisi recenti: collasso fiscale, attacchi terroristici e disastri naturali: «Adesso siamo di fronte a una crisi altrettanto grave, e per risolverla ci vuole un approccio drastico. La comunità va ricostruita dal basso verso l’alto, non viceversa».

In effetti, il senso di un’epocalità di questo cambio di guardia è molto forte. «Tutti gli occhi dei liberal sono puntati sulla New York di de Blasio» è il titolo di prima pagina del New York Times di ieri, che ben riflette come l’esperimento progressista promesso dal nuovo sindaco sia visto, anche a livello nazionale come un test di iniziative politiche di sinistra intese ad affrontare la questione della diseguaglianza sociale e, più in generale, i problemi delle grandi città. In altre parole, New York come l’anti Detroit. Rispetto a metropoli disastrate dalla chiusura delle fabbriche, dal declino delle manifatture, dalla disoccupazione e dall’esodo di un’enorme percentuale della popolazione, come è successo nella capitale del Michigan, New York ha sicuramente vantaggi enormi: finanza, immobiliare e turismo sono i motori della sua economia (motori che la politica di Michael Bloomberg ha favorito incondizionatamente). E, nella sua scommessa di far funzionare meglio New York anche per chi ci vive, ci lavora e non guadagna milioni di dollari all’anno, de Blasio può contare su un’elite di contribuenti molto ricchi più aperti all’idea di lievi aumenti fiscali di quanto non lo siano analoghi miliardari in altre zone del paese. La realizzabilità di parecchie delle iniziative promesse da de Blasio dipenderà anche da loro, una potente fascia di cittadini che per background e realtà sociale (a prescindere dalla scelta di partito) sono più affini a Bloomberg che all’ex public advocate di Brooklyn.

La consapevolezza di muoversi su un palcoscenico più ampio di quello locale (evidenziata anche dal ruolo centrale dato alla presenza di de Blasio in una recente riunione tra i sindaci delle maggiori città americane e Barack Obama) e di star intraprendendo un esperimento politicamente molto difficile, hanno evidentemente guidato le scelte che de Blasio ha fatto finora rispetto a chi governerà al suo fianco. La più discussa, e discutibile, è quella del nuovo capo della polizia, William J. Bratton, già commissioner di Rudolph Giuliani con cui aveva architettato le stesse pratiche (stop and frisk, quality of life…) contro ha fatto campagna elettorale lo stesso de Blasio. Opportunistica o no, la nomina di Bratton è però la garanzia più forte che de Blasio poteva dare a chi temeva che un’amministrazione progressista riportasse New York allo stereotipo degli anni bui del disordine e del crimine. Per il resto, la squadra che sta mettendo insieme molto gradualmente, è in contro tendenza non solo rispetto a quella di Bloomberg, reclutata quasi per intero dal settore privato, ma anche rispetto al trend populista/giovanilista dell’antipolitica ossessionata dal «nuovo» che va forte a Washington. Si tratta infatti di persone che hanno già lavorato all’interno di municipi – passati per Koch, Dinkins, persino Giuliani. Ne fa parte per esempio Zachary Carter, un pubblico ministero afroamericano di Brooklyn, che aveva condotto casi importanti come quello contro la polizia nell’abuso dell’haitiano Abner Louima o quello contro il finanziere truffa Jordan Belfort. L’educatrice settantenne (anche ex preside e insegnante) Carmen Farina eredita il problematicissimo assessorato dell’istruzione, uno degli uffici dove Bloomberg ha fatto più danni. È vero che uno dei vicesindaci (assessorato dell’abitazione), Aliacia Glen, viene da Goldman Sachs, ma era quella che alla banca d’investimento si occupava delle liason per lo sviluppo delle case a basso costo. Più lento dei suoi predecessori, e lui stesso senza un curriculum manageriale, a costo di non essere trendy (perora l’età media è di sessantuno anni) de Blasio sta mettendo insieme un gruppo di gente che sa lavorare sodo e conosce bene il sistema ipercomplicato che dovrà navigare.