Di lui piace anche l’attenzione che sembra riservare ai boroughs fuori da Manhattan. Bill de Blasio vive a Brooklyn e nei suoi comizi ha spesso invitato a non dimenticare le parti meno glamour della città (Rockaways Sandy…). Qualcuno diceva: «Stiamo per eleggere un sindaco che non ha bisogno del gps per trovare Southeast Queens».

E, come anticipato, è stata una vittoria clamorosa. Joseph Lhota, l’avversario repubblicano, l’ha riconosciuta alle 21.29, mezz’ora dopo la chiusura dei seggi. Il city advocate Bill de Blasio è diventato il 109esimo sindaco di New York – il primo democratico da più di due decadi, a cinquantadue anni uno dei più giovani, e con un margine di vantaggio storico, il maggiore dal 1985, quando Ed Koch polverizzò la repubblicana Carol Bellamy. Alle 23.20 della notte, con il 97% dei seggi scrutinati, de Blasio era infatti in testa, 73% contro il 24% di Lhota. Non è solo la quantità dei voti a pesare (come previsto, l’affluenza è stata scarsa – di 4.6 milioni circa di iscritti alle liste solo un quarto si è presentato alle urne, tra il 22 e il 25%. Inoltre, solo un newyorkese su sei è repubblicano), ma il fatto che, come era successo nelle primarie di settembre, il consenso nei confronti di de Blasio riflette una demografia molto allargata, dal punto di vista del genere, della razza e del ceto sociale.

Secondo gli exit poll rilasciati dalla Edison Research già in prima serata, il 96% degli afroamericani e circa l’85% dei latinos hanno votato de Blasio. Unanime il Partito democratico, con il 90% dei votanti, ma dalla sua parte si sono schierati anche il 16% dei repubblicani e metà degli iscritti ad altre liste.

E la mappa elettorale sul sito del New York Times rifletteva un blu profondo (è il colore dei democratici) in tutte le zone della città, ad eccezione di Staten Island.

«Non ci sono dubbi, cari newyorkesi, vi siete espressi molto chiaramente a favore di una nuova direzione per la nostra città. Avete scelto di intraprendere un percorso progressista e questa sera lo iniziamo insieme», ha detto de Blasio dal suo affollatissimo party delle vittoria, a Park Slope, il quartiere di Brooklyn in cui vive. Nella hall di un vecchio arsenale decorata con centinaia di cartelli rossi che dicevano «Progress», l’atmosfera era elettrica. Chiara e Dante, i figli di de Blasio, lei con un vestito rosso e lui con cravatta dello stesso colore, la mitica afro scolpita impeccabilmente, ballavano sul palco.

[do action=”quote” autore=”Bill de Blasio”]«Non importa dove sei nato, che aspetto hai, a che religione appartieni, o chi ami. Se hai cervello, cuore, coraggio e fiducia, questa città, più di ogni altra al mondo, ti offre l’opportunità di una vita migliore. Per generazioni e generazioni, New York è stata il sinonimo di quell’opportunità. Ed è ciò che deve ritornare a essere»[/do]

Nel discorso il nuovo sindaco ha ringraziato anche sua moglie, la poetessa afroamericana Chirlane McCray («la mia miglior amica, una donna brillante, capace di grande forza e altrettanta compassione») incontrata quando lavoravano insieme per l’amministrazione del sindaco David Dinkins.

La famiglia perfetta

Il contributo che la famiglia di de Blasio ha dato alla campagna elettorale è stato effettivamente molto importante. L’immagine di un nucleo rilassantamente biracial, due genitori che stanno visibilmente bene insieme, con due figli teen ager educati nelle scuole pubbliche della città (Chiara e adesso all’Università in California), che vivono in un casa poco appariscente di Brooklyn si sono stagliati in netto contrasto con il background famigliare di Giuliani (disconosciuto dai figli dopo un divorzio teatrale mentre era sindaco) e quello di Bloomberg (che ha una “fidanzata” businessman repubblicana e che non viveva nemmeno nell’abituale residenza del sindaco, Gracie Mansion, perché la sua townhouse è più comoda e fastosa).

De Blasio ha spruzzato il suo discorso con qualche frase in spagnolo e saluti agli amici italiani e agli abitanti dei paesi di suo nonno e sua nonna, Sant’Agata dei Goti e Grassano.

«New York è l’incarnazione più luminosa dell’idea su cui si fonda la grandezza dell’America: non importa dove sei nato, che aspetto hai, a che religione appartieni, o chi ami. Se hai cervello, cuore, coraggio e fiducia, questa città, più di ogni altra al mondo, ti offre l’opportunità di una vita migliore. Per generazioni e generazioni, New York è stata il sinonimo di quell’opportunità. Ed è ciò che deve ritornare a essere», ha detto ancora de Blasio ricordando i temi forti della sua piattaforma elettorale – meno diseguaglianza sociale, tasse più alte per i ricchissimi, asili dopo scuola per bambini, abitazioni a costi moderati, una polizia più in sintonia con la vita quotidiana dei quartieri e i loro residenti…

Già nei giorni scorsi media e commentatori, anticipando questa vittoria, hanno inziato a parlare di «inizio di una nuova era liberal». Ed è vero che quello che succederà nella città più vasta e difficile da governare d’America sarà considerato una specie di laboratorio della politica progressista a livello nazionale, oltre che un potenziale modello per risolvere i problemi che piagano altri grossi centri urbani degli States. Un po’ come un modello e un’ispirazione sta diventando la California di Jerry Brown.

La sfida che partirà con l’inauguraziona di de Blasio il primo gennaio prossimo, è molto grossa. Appena entrato in carica, il nuovo sindaco dovrà infatti gestire un budget anuale di settanta miliardi di dollari, trecentomila impiegati pubblici, il rinnovo di una serie di spinosi contratti sindacali scaduti, un dipartimento di polizia sfiduciato dai cittadini ma molto potente, mancanza di posti di lavoro, un aumento enorme dei senza tetto… Dovrà anche gestire un complicato balletto con Albany – capitale dello stato che, a nord della città, nonostante i democratici ne controllino quasi interamente l’Assemblea legislativa, è molto meno in sintonia con il messaggio populista e liberal che lo ha portato cosi gloriosamente al municipio.

Ed è proprio per soddisfare una delle promesse principali della sua campagna elettorale, e cioè quella di aumentare le tasse di chi guadagna più di mezzo milione di dollari all’anno (per pagare asili nidi e doposcuola), che de Blasio avrà bisogno dell’approvazione di Albany, e soprattutto di quella del suo potente, ambizioso, governatore, Andrew Cuomo, che dovrà firmare la legge. Con in mente una possibile corsa alla Casa Bianca nel 2016, Cuomo potrebbe non vedere di buon occhio l’opportunità di essere identificato con un programma troppo “di sinistra”.

L’arte della trattativa politica

Sulla carta, per ora, i due sono alleati – Cuomo era il ministro dell’ Housing and Urban Development di Clinton e, in quegli anni, de Blasio ha lavorato per lui a New York e in New Jersey. De Blasio è stato inoltre manager della campagna di Hillary Clinton (ruolo in cui le sua capacità di stratega politico si sono viste benissimo). Dietro al candidato che ha fatto sua parte della retorica di Occupy Wall Street, sta infatti anche un insider che conosce bene l’arte delle trattativa politica, e occasionalmente del compromesso. Nelle ultime settimane prima delle elezioni, l’ex supporter dei sandinisti di Noriega, i cui genitori sono stati messi sotto inchiesta perché accusati di essere comunisti, ha fatto molto per “tranquillizzare” Wall Street. Avrà bisogno anche di loro per realizzare I suoi obbiettivi.

«De Blasio sta per intraprendere un esperimento nuovo» ha detto al Washington Post martedì notte lo stratega democratico Hank Sheinkopf. «Come fa un sindaco a invertire il trend della diseguaglianza sociale? È un obbiettivo molto complicato. Lo stesso presidente finora non ci è riuscito, non ci sono riusciti i governatori degli stati. E nemmeno la politica a livello nazionale».
Tra le chiamate di routine che martedì notte hanno raggiunto de Blasio per congratuarsi della vittoria, anche quella di Barack Obama.