New York Gilded Age, l’architetto procaccia
Riscoperte nell'arte: Stanford White Progettista dell’Arco di Washington Square, fu un ricercato allestitore d’interni: dove accostava capolavori strappati senza scrupoli al Vecchio Continente, o esibiva un gusto di pacata avanguardia. La sua vita-romanzo finì con un colpo di pistola
Al posto dell’Empire State Building un tempo sorgeva la casa di Mrs Astor, con una sala da ballo capace di contenere quattrocento persone, i cosiddetti Four Hundred, enumerati dall’arbitro dell’eleganza cittadina, Ward MacAllister, sul New York Times del 16 febbraio 1892.
Erano necessarie quattro generazioni di ricchezza per entrare nella lista capeggiata dalla monumentale padrona di casa, Caroline Shermerhorn, venuta al mondo nel 1830 da un armatore di origine olandese e vedova di William Backouse Astor Jr., il cui nonno era stato il primo multimilionario d’America grazie al commercio di pellicce.
I Quattrocento si incontravano nei loro palazzi sulla Fifth Avenue disegnati come castelli della Loira da Willam Morris Hunt, stipati di arredi in stile e drappeggi forniti dalla ditta Allard, fra quadri comprati a Parigi – perlopiù mucche di Rosa Bonheur e fiori di Madeleine Lemaire e qualche audace nudo. Altera e conscia della propria posizione di regina della città, Mrs Astor temeva una cosa sola, l’avanzata dei nuovi ricchi.
Questo e altro servì a Edith Wharton per scrivere libri memorabili e ora è servito a Julian Fellowes per imbastire la sceneggiatura di The Gilded Age.
Nella serie ci sarà anche un piccolo accenno a un personaggio discusso che non entrava nel novero delle quattro centinaia di eletti ma era comunque indispensabile alla loro messinscena sociale.
Stanford White era lo spiritato architetto, rosso come la fiamma fino alla punta dei baffi umbertini, colui che nel momento stesso in cui McAllister decretava chi fosse dentro e chi no, costruiva uno dei simboli di New York, l’arco di Washington Square, e aveva da poco finito il monumentale Madison Square Garden nelle forme di una cittadella moresca corredata da una replica della Giralda di Valenza (il secondo edificio di quel nome, poi demolito per fare posto all’attuale).
Era partner dello studio McKim, Mead & White come progettista ma la sua fama era soprattutto quella di allestitore d’interni, grazie al gusto e alla capacità di procacciare ogni tipo di opera d’arte al di là dell’oceano.
I contatti con tutti i maggiori antiquari europei gli consentivano di rifornire l’aristocrazia del denaro di tutto ciò che quella del sangue svendeva con pochi rimpianti. In Italia, a Firenze, trattava con Elia Volpi e Stefano Bardini, a Roma con Simonetti e Sangiorgi.
Uno dei suoi favoriti procacciatori fu Arthur Acton (padre del più celebre Harold), che alcuni giudicavano un po’ imbroglione pur apprezzandone il gusto squisito. Altri erano personaggi oggi meno noti come il fantomatico Godfrey Kopp che inserendo un von prima del cognome si spacciò con successo per un barone austriaco – persino Bernard Berenson restò incantato dai suoi modi impeccabili. In realtà era figlio di un pasticcere di Lucerna e aveva esordito con eccellenti maniere e un proficuo mercato di quadri perlopiù falsi.
Kopp fu capace di transazioni acrobatiche che decenni dopo ispirarono un film: dopo aver incassato un anticipo sull’Arco di Costantino da uno sprovveduto milionario di Chicago, provò a incastrare un magnate delle ferrovie americane che moriva dalla voglia di possedere la colonna Traiana.
Dopo aver guadagnato una fortuna vendendo in blocco la collezione di don Marcello Massarenti (prelato lesto nel raccogliere tutto quello che trovava in svendita nei palazzi del defunto stato pontificio) a J.T. Walters, Kopp tentò altri colpi maestri ma fu fermato proprio nella sua patria d’elezione, Vienna, e condannato per debiti e truffa. Riuscì a fuggire e finì facendo il portiere d’albergo a Montecarlo.
I fratelli egiziani Vital e Leopold Benguiat erano i fornitori di stoffe di ogni tipo, dai parati di stanze barocche ai panni sacri, dai veli per calici alle pianete: delle infinite nappe da tende settecentesche passate nelle loro mani resta oggi qualche esemplare nel Cooper Hewitt Museum.
Da altri mercanti ancora White acquistò opere d’arte d’eccezione, come il coro del castello dell’Abazia d’Urfé, intarsiato da Fra’ Damiano da Bergamo. Lo installò con disinvoltura nel passaggio che portava alla sala da ballo nella casa di William C. Whitney a cui destinò un gruppo di sedie e divani provenienti dalla Galleria Dorata di Palazzo Carrega Cataldi a Genova: per adattarle a quella enorme stanza non esitò a farli allungare.
Le porte della stessa galleria genovese, compiuta verso la metà del Settecento su disegno di Lorenzo de Ferrari, finirono, sempre grazie a White, in un’altra collezione e oggi sono nel Metropolitan Museum come non pochi altri capolavori acquistati da quel fulvo e abile arredatore: fra questi il Giovane arciere attribuito a Michelangelo, proveniente dalle raccolte Borghese, e il grande ciborio medioevale di Fiano Romano.
Gli interni di Stanford White costavano cifre enormi e brillavano per l’accostamento di opere d’arte eterogenee: sarcofagi romani accanto a colonne tortili barocche, specchi veneziani che riflettevano ritratti spagnoli di Infanti anemiche e baffuti duchi, vetrate gotiche e clavicembali rococò. Una pelle di orso siberiano sdraiata fra le sedie rinascimentali era la sua immancabile firma.
Ma White era un uomo dai due volti, in più di un senso. Accanto alle invenzioni che illudevano i clienti di un ancestrale passato progettò interni moderni in un gusto sicuro e pacatamente all’avanguardia, a metà fra quello che i contemporanei inglesi definivano stile Queen Anne (una versione geometrica e stilizzata dell’architettura degli Stuart) e le preziosità artigianali del movimento estetico.
Fra i suoi migliori risultati è sicuramente da contare il rifacimento interno della casa di William Watt Sherman (1879-’81), dove si sbizzarrì in un revival neoclassico geometrizzato, reso prezioso dai colori e dalle materie.
In altri suoi interventi fu affiancato dai nuovi campioni del design americano come Candace Wheeler e Louis Comfort Tiffany.
L’altra faccia nascosta di White era più oscura.
I Quattrocento sapevano ma non parlavano della stanza al piano superiore della sua casa dove su un’altalena di velluto rosso White faceva ondeggiare fanciulle inebriate dal lusso, dallo champagne e forse da altre sostanze.
Una di loro, considerata la più bella donna del momento, Evelyn Nesbit, convolò a nozze con un milionario morfinomane pur rimanendo in buoni termini col suo antico seduttore.
Una sera di giugno 1906 White stava cenando da solo nel ristorante sulla terrazza del Madison Square Garden quando il rivale gli si avvicino e lo uccise sul colpo con tre colpi di rivoltella. Ne derivò quel che la stampa definì il processo del secolo, seguito dalla fuga dal carcere dell’assassino e dalle aste di tutto ciò che White aveva ancora in serbo.
I cataloghi di quelle vendite illustrano gli interni della sua casa, un emporio degno dei quaranta ladroni, in cui ogni tipo di manufatto che potesse solleticare il palato dei Four Hundred era allestito sotto soffitti staccati da chiese e da palazzi del vecchio continente. Nella sala da musica, fra una mezza dozzina di arpe, troneggiava un clavicembalo con la sirena araldica dei Colonna.
Tutto passò di mano in mano e venne disperso come gusto comanda, e Mrs Astor morì due anni dopo, non senza aver prima allargato la lista dei suoi ospiti a milleduecento.
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