Tra gli scrittori di calcio l’unico che in Italia possa dirsi alla lettera un saggista è Sandro Modeo, non solo per la qualità di una scrittura che mantiene chiarezza ed esattezza anche nei trapassi analitici più arditi e talora temerari: infatti il saggista, così come un secolo fa ne presagiva la funzione il venerando Lukács, è colui che tratta l’esperienza di una forma precodificata e perciò si distingue dall’artista che affronta la esperienza del mondo tout court. Non basta, perché l’interesse di Modeo non va tanto alla dinamica del calcio in sé e alla sua storia quanto alla fattispecie più moderna, il cosiddetto “calcio totale” teorizzato dagli olandesi, e massime da Rinus Michels, per essere condotto a grammatica trasformazionale prima dal Milan di Arrigo Sacchi e poi dal Barcellona di Pep Guardiola cui Modeo ha di recente dedicato una splendida monografia, Il Barça. Tutti i segreti della squadra più forte del mondo (Isbn edizioni, 2011), che seguiva di un anno il volume d’esordio ora disponibile in una nuova edizione accresciuta, L’alieno Mourinho (presentazione di Arrigo Sacchi, postfazione di Irvine Welsh, Isbn edizioni, pp. 207, € 12.00).

Va premesso che, alla pari di un saggista, Modeo esce ed entra dal suo oggetto in piena libertà evadendo sia l’angustia del reportage sia l’obbedienza a una nuda disamina tecnica. Mourinho è insieme testo e pretesto ovvero è la viva testimonianza di un certo tipo di calcio, e della sua evoluzione, ma nel frattempo è l’emblema di una poetica e dunque di un’idea del gioco sottoscritta dal saggista medesimo. Non occorre rammentare che qualunque partitura saggistica comporta la decostruzione del suo referente ma soggiace, più o meno virtualmente, alla relativa apologia: L’alieno Mourinho non fa eccezione, perché se è vero che non viene venerato o incensato è anche vero che la sua figura viene giubilata in blocco e alla stregua di un esempio magnanimo. Come se, per riprendere un antico adagio, comprendere tutto Mourinho volesse dire perdonargli tutto, nel qual caso anche i tratti sommamente volgari e persino brutali di una star che reputa, evidentemente, tutto gli si debba e tutto gli sia concesso.

L’approccio di Modeo è particolare e niente affatto italiano: di formazione scientifica (critico attento sul “Corriere della Sera” e testate di settore), il credo neopositivista e un forte pregiudizio antiumanistico (Modeo non scrive mai “umanesimo” ma esclusivamente “veteroumanesimo”) si combinano alla reale competenza in alcune discipline di frontiera, quali le neuroscienze, necessarie per definire il quadro tecnico-atletico in cui opera l’allenatore portoghese. Di particolare interesse sono i rilievi sull’apprendistato e sui maestri, dall’antesignano Béla Guttmann a Artur Jorge o Robson e Van Gaal che un giovanissimo Mourinho affiancò, in principio da umile coadiutore, sulla panca del Barcellona: da costoro Mourinho, autodidatta e genio eclettico, non tanto deduce degli schemi quanto una serie di principi elementari su cui costruire, volta volta, un gioco di squadra che risulti efficace e vincente.

Modeo, fondatamente, lo ritiene un Houdini, spettacolare trasformista, un vero e proprio camaleonte in grado di mimetizzarsi per colpire meglio l’avversario. D’altro lato, lo accredita di una estetica che in realtà ne contraddice il pragmatismo. Il portoghese può avere appreso molte cose da Arrigo Sacchi ma è lontano anni luce dal suo fanatismo metafisico; al riguardo racconta Jorge Valdano (scrittore pregiatissimo da Modeo, in effetti un modesto epigono di Galeano e Soriano) che nel conciliabolo prima di un Milan-Real Madrid l’arbitro Vautrot riunì Sacchi e Toshak per le raccomandazioni rituali:“ ‘Dobbiamo rendere conto a cinquecento milioni di spettatori, spero che assisteremo a una partita di calcio’. Toshak rispose per primo: ‘ A noi interessa soltanto vincere’. Sacchi rispose con più avvedutezza: ‘A noi interessa soltanto giocare bene’ “. Valdano ne ricava una morale edificante ma è probabile che Mou ghignerebbe davanti al redivivo Candide. (Scrive Modeo: “Contravvenendo ai dogmi di Brera […] l’irruzione di Sacchi rivolta decenni di attendismo vittimistico, organizzando un furore geometrico in cui ogni ingrediente […] è la rivitalizzazione attualizzante della rivoluzione olandese”. Qui sia formulata per inciso una semplice domanda: perché a casa di Sandro Modeo quelli di Gianni Brera si chiamano dogmi e quelli di Arrigo Sacchi no?).

Ha ragione Modeo nel ritrarre il portoghese quale un mutante di genio, capace di ogni innesto e metamorfosi, ne ha meno nel momento in cui recalcitra a trarne la più logica delle conclusioni: se è vero infatti che la sua dominante è il pragmatismo, o comunque l’etica del risultato prima che l’estetica del gioco, dev’essere anche vero che Mourinho, dopo tutto, è l’erede elettivo del calcio all’italiana, vulgariter del catenaccio. “Stretti dietro, larghi davanti” cos’altro vuol dire? Non è soltanto un’arma fra le altre disponibili, in realtà per lui è l’arma pressoché obbligata. Si pensi a Barcellona-Inter di tre anni fa, giocata in dieci contro undici, il suo capolavoro, quando edifica all’impronta il muro a due linee su cui vanno fatalmente a sbattere i cavalieri senza macchia di Pep Guardiola: quella duplice diga è nient’altro se non la Maginot di Nereo Rocco trasformata su due piedi in un Vallo di Adriano. Mourinho è questo, un empirico perfettamente consapevole di sé e dei mezzi a disposizione, nulla di più e nulla di meno. Se Arrigo Sacchi è l’erede astrale di Candide, a lui conviene la parte di un Tartuffe postdatato e però decisamente abile nel suo mestiere come nel presentarsi al cospetto del mondo.

Alcune delle pagine più sottili dell’Alieno Mourinho, l’autore le dedica al profilo psicologico e alla immagine pubblica, vale a dire a esternazioni e gesti eclatanti, come il mimo plateale dell’ammanettamento, l’accusa di prostituzione intellettuale ai giornalisti, gli usuali lazzi in conferenza stampa, le uscite provocatorie, i dinieghi e le predilezioni imprevedibili. Modeo ascrive tutto ciò al carattere di un affabulatore o di un seduttore così astuto da potersi mutare, all’occorrenza, in plagiario, ma un plagiario sottotraccia malinconico ed esistenzialista dove l’immagine della vittoria, la prossima vittoria, trionfa sul senso di vuoto che invece dilaga al presente. E la strafottenza, la burbanza, i gesti di scherno e le battute omofobe, le posture identitarie (“noi” contro di “loro”) incredibili in un individuo perfettamente poliglotta e di larga esperienza cosmopolita? L’impressione è che l’autore, pure richiamandolo, sottovaluti il fatto che José Mourinho è cresciuto, bambino, nel frangente terminale del regime di Salazar (descritto in uno dei più bei racconti di Saramago, Sedia: “La sedia cominciò a cadere, ad andare giù, a cascare, ma non a rigor di termine, a crollare o, come si dice in portoghese, a desabar…”), proveniente, lui in persona, da una famiglia di fascisti che non risulta abbia mai rinnegato, mentre alcuni atteggiamenti da macho e certe intemperanze squadristiche sembrerebbero perpetuare la sua origine. L’impressione ulteriore è che il pensiero critico di Gramsci e di Adorno qui sarebbe più utile delle neuroscienze: è un peccato che un saggista della intelligenza e del rigore di Sandro Modeo li nomini una volta sola per liquidarli come ferrivecchi, ovviamente veteroumanistici.