Nella lingua italiana neutro può essere solo maschile o, neutra, femminile. È una specie di paradosso, ma il genere neutro, ben presente nel latino, è scomparso nella nostra e in altre lingue neolatine, mentre sopravvive in quelle germaniche e slave. Che la lingua ci obblighi alla differenza dei due sessi – peraltro con tutti quei plurali normativamente maschili – viene sempre più spesso percepita come una specie di violenza da chi vive una identità sessuale che non si iscrive né nel maschile né nel femminile (almeno quelli – per così dire – simbolicamente prevalenti). Si diffonde l’uso di scrivere un asterisco al posto della desinenza che declina il genere. Non so se possa essere considerato l’equivalente del neutro: in quella poco usuale stellina immagino sia meglio leggere lo spazio di libertà con cui molte persone vivono, appunto, il divenire della propria differente identità sessuale.

Non nascondo però che la cosa in me lettore maschio – e affezionato al suono delle parole che abbiamo ereditato – provoca un qualche disagio. Magari è proprio l’effetto voluto da chi scrive così.

Nei giorni scorsi ha fatto un certo clamore la notizia che una persona in Autralia ha ottenuto il riconoscimento giuridico del proprio genere neutro: né uomo, né donna. Anche se i giornali raccontano di un maschio che si è trasformato in femmina anche grazie a un’operazione chirurgica, e che poi ha rinunciato anche a questa sua scelta. Il fatto è stato commentato sul Corriere della Sera di domenica da Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica di Milano nei cui testi, stimolanti, sul capitalismo contemporaneo mi sono imbattuto solo recentemente. Nel mondo «della singolarità assoluta che stiamo costruendo – scrive – in cui ognuno pretende il riconoscimento della propria irripetibile individualità, il genere neutro è il destino a cui rischiamo di essere destinati». Una prospettiva che a lui non piace: in questo nuovo mondo «ogni singola esistenza si pensa sciolta da qualsiasi legame sociale originario, incarnato prima di tutto nella lingua». Da un regno delle parole si passerebbe al «regno della numerazione» e della tecnica, in cui non ci sarebbe più posto né per l’etica né per la cultura in quanto «ordito di significati condivisi». Un allarme eccessivo? Avverto un’idea di cultura un po’ troppo determinata da una concezione di differenza prima di tutto confermata da una tradizione che rassicura.

Penso anch’io, però, che una ricerca di libertà, e pure di autoaffermazione identitaria, che rimuova l’origine e la relazione rischi di fallire anche il proprio desiderio.

Sabato ho partecipato a Milano a un incontro sull’identità maschile nel cambiamento. Sui nessi tra nuovi desideri, politica e vita. Una quarantina tra donne e uomini e molte differenze di orientamento culturale e identitario. Il racconto prevalente è stato di qualcosa che, nella trasformazione difficile e conflittuale dei ruoli tradizionali, si modifica in meglio nella quotidianità delle convivenze, dei rapporti tra genitori e figli, nelle scelte di vita. Un mutamento che però fatica ancora a dirsi e rappresentarsi (per quanto uno degli oggetti di discussione sia stata una mostra – ideata da Maschileplurale e dal gruppo Officina – che invece cerca di raccontare il mutato atteggiamento degli uomini verso il rischio della propria violenza).

Quell’asterisco che tronca una parola forse evoca un destino al neutro indifferenziato, un mondo di diritti rigidamente formalizzati e di anomia tecnologica. Forse invece è una cesura, un imprevisto che ci stimola a rinominare la differenza cercando la pienezza di parole nuove.