Sebbene le definizioni del vocabolario segnalino traumi fisici e alterazioni visibili, i personaggi del romanzo di Andrés Neuman titolato Frattura (traduzione di Federica Niola, Einaudi, pp. 400, € 21,00) non soffrono di lesioni immediatamente percepibili: sono piuttosto sopravvissuti a traumi individuali e collettivi. Il protagonista è un hibakusha, uno scampato alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, la cui storia – in parte ispirata alla vita di Tsutomu Yamaguchi, l’unico sopravvissuto ad entrambi i bombardamenti – si sviluppa tra due disastri epocali, quello del 1945 e il terremoto del 2011, con il successivo tsunami e la crisi della centrale nucleare di Fukushima.
La vita di questo superstite è dunque una sorta di esperimento, il tentativo di elaborare un’estetica della sopravvivenza, modellata sulla tecnica del kintsugi, l’arte giapponese del restauro che lungi dal nascondere crepe o lesioni, le evidenzia grazie all’uso di materiali preziosi, come i fili d’oro. La struttura del romanzo cerca di riprodurre la stessa tecnica: recupera i frammenti, dà loro nuova vita, trasforma le cicatrici in opere d’arte, dà forma a brandelli quasi insignificanti.

Per realizzare il suo progetto, Neuman torna al romanzo lungo, com’era già Il viaggiatore del secolo, e racconta dunque la vita di Yoshie Watanabe, il cui nome è un omaggio non casuale al poeta peruviano di origine giapponese José Watanabe. Nei due bombardamenti, Yoshie ha perso tutta la sua famiglia: accolto a Tokyo dagli zii, diventa uno studente modello, poi il manager di successo di una multinazionale che costruisce e vende televisori, prodotti, dunque, che sono un simbolo del Novecento. Prima per ragioni di studio, poi per lavoro, Watanabe si sposta dal Giappone a Parigi, poi a New York, a Buenos Aires, a Madrid, per tornare, ormai anziano, a Tokyo, e ogni trasferimento coincide con momenti cruciali della storia dei luoghi in cui si ritrova.
Il racconto della sua biografia nomade passa attraverso le voci delle quattro donne amate, che lo ricordano dal momento in cui si è assentato, in un intreccio di memorie a volte non coincidenti, risvegliate da un giornalista che è sulle tracce di Watanabe per scrivere sui disastri nucleari. Ma il sopravvissuto si nega ripetutamente, mentre un narratore impersonale si alterna ricucendo i diversi frammenti dalla prospettiva del disastro di Fukushima.

Tutte donne di parola
Apparentemente disorganica, la narrazione recupera la linearità della biografia nella sequenza cronologica delle testimonianze, e le tracce lasciate da Watanabe permettono di seguirlo sia nei suoi mutamenti individuali e sentimentali sia nella sua evoluzione professionale e nei suoi spostamenti geografici. Il filo che fa da collante alle diverse esperienze è un filo linguistico: ad ogni trasferimento Watanabe impara una nuova lingua, e ogni volta fa esperienza della estraneità alla quale lo relega la lingua madre giapponese.
Nei suoi esercizi lessicali lo accompagnano le donne di cui si innamora, tre delle quali lavorano a stretto contatto con le parole: la francese è un’insegnante, la nordamericana una giornalista e l’argentina è un’interprete.

pprendere le lingue con loro non limita Watanabe all’appropriazione di un nuovo lessico, una grammatica, nuove regole della sintassi: ogni parola imparata amplia il suo orizzonte, gli fa conquistare una nuova dimensione, fino a trasformare la sua tensione estetica in un imperativo etico. La necessità di comunicare con i mondi in cui vive, e con le donne di cui si innamora, gli consente di rileggere la tragedia dalla quale è partito, e per la quale gli sembrava impossibile trovare parole adeguate. Mentre inizialmente Yoshie Watanabe non intende rivelare la sua condizione di hibakusha, che accetterà solo alla fine del suo lungo percorso esistenziale, quando approderà all’area proibita di Fukushima riprenderà il suo discorso interno bloccato nel tempo, e cercherà di nominare la sua frattura fondativa.
Un uso singolare dello spagnolo permette a Neuman di alternare alla lingua standard della voce narrante in terza persona, le lingue dei diversi Io che riproducono i difetti tipici dello spagnolo parlato da persone francesi, statunitensi, o le varianti rioplatensi, o i colloquialismi madrileni. Il mosaico linguistico – purtroppo quasi impossibile da restituire nella traduzione – rafforza l’idea di una personalità costruita a partire da una gamma di varianti non sempre facili da interpretare.

Una patria portatile
Ma una attenzione speciale viene data anche agli oggetti, a volte minimi, o ai ricordi di quanto Watanabe porta con sé nei suoi traslochi transoceanici: la collezione di banjo, il tappeto a righe bianche e nere, l’altare familiare, e altri oggetti apparentemente insignificanti, accumulati passando da un continente all’altro, traduzione materiali di spazi altrimenti estranei. Il suo nomadismo professionale e sentimentale non prova in Watanabe una qualche disintegrazione identitaria: alla fine del suo giro del mondo, torna in Giappone; ma lo spazio che nel frattempo il romanzo è andato definendo ha perso concretezza, e la trama delle relazioni che lega città diverse e lontane è in parte replicabile.
Neuman supera il luogo comune della transnazionalità, spesso invocato per definire l’esperienza postmoderna del nomadismo culturale, che quando approda alla scrittura definisce la lingua come unica patria possibile. Ciò che nel romanzo invece viene suggerita è la possibilità di elaborare una patria portatile, non più una nozione geografico-politica quanto uno stato emozionale. L’idea di Giappone che Watanabe elabora via via gli viene sia dal confronto con chi incontra, sia dalla capacità di scovare ovunque tracce della cultura di origine, recuperando un senso di consistenza a fronte delle sue fratture. Non ha cicatrici sul volto, ma ne conserva alcune sulle mani e sulla schiena, con cui lentamente impara a convivere.

Ritorno in Giappone
La sottrazione alla vista di questi segni palpabili alimenta, nel romanzo, un’altra vena: dall’ultima donna di cui Watanabe si innamora, sebbene parli uno spagnolo madrileno che è diverso da quello di Buenos Aires, non imparerà una ulteriore inflessione linguistica bensì una nuova arte: Carmen è infatti una fisioterapista che ripara lesioni interne, a volte invisibili. Tanto l’estetica di Watanabe quanto l’etica della sopravvivenza dovranno passare dall’accettazione delle sue cicatrici, dal rincollare le proprie fratture interne, prima di mettersi in viaggio verso l’«ultimo cerchio», quello di Fukushima, il punto zero della tragedia, dal quale partirà una possibile reinvenzione della sua vita.