«Se vai a votare, vinceremo…Mi fido di te e ti chiedo: esci e vai a votare adesso». È una parte del tweet con il quale ieri pomeriggio Benyamin Netanyahu, 70 anni, ha esortato i suoi sostenitori iscritti al Likud a non mancare le primarie per scegliere il leader che guiderà il partito alle elezioni del 2 marzo. Pur essendo sicuro di sbaragliare il rivale ed ex ministro Gideon Saar, 53 anni, primo vero avversario da dieci anni a questa parte, il premier israeliano comunque non ha potuto nascondere la preoccupazione per la scarsa affluenza alle urne, fortemente limitata dall’ondata di maltempo che ieri si è abbattuta su Israele, Gerusalemme e i Territori palestinesi occupati. I risultati finali sono stati diffusi nel corso della notte. Nessuno dubitava della vittoria di Netanyahu che negli ultimi anni ha fatto piazza pulita di buona parte degli iscritti non schierati dalla sua parte.

 

Tutto scontato? Fino ad un certo punto. Quel 30% assegnato dai sondaggi a Saar testimonia che nel Likud il blocco filo Netanyahu non è più granitico. Non solo. Se oggi i dati definitivi assegneranno allo sfidante qualcosa in più del 30%, Netanyahu avrà ottenuto una mezza vittoria. Sarà un campanello di allarme sui riflessi nel partito dell’incriminazione per corruzione, frode e abuso di potere che ha ricevuto il mese scorso. Da parte sua Saar ha puntato tutto sulla «impossibilità» per Netanyahu, anche a causa dell’incriminazione, di formare una nuova maggioranza di destra, come hanno evidenziato gli esiti delle elezioni del 9 aprile e del 17 settembre. «Io invece sono in grado di farlo», ha affermato in più occasioni. Esagera, però i sondaggi dicono che il Likud guidato da Saar avrà meno seggi il 2 marzo ma più possibilità rispetto alla leadership di Netanyahu di convincere l’intera destra a coalizzarsi, incluso il partito nazionalista laico Yisrael Beitenu, ago della bilancia della politica israeliana, che dalla fine del 2018 si tiene a distanza dai governi guidati dal premier attuale fondati sull’alleanza con i partiti religiosi ortodossi.

 

Comunque vadano le cose, occorre sottolineare che la rivalità tra Saar e Netanyahu è solo personale, non politica. Si odiano da anni. Da quando il premier si rese conto che quel giovane attivista salito ai vertici del Likud aveva la stoffa per diventare un potenziale e pericoloso avversario interno. Netanyahu non ha esitato, assieme i dirigenti del partito suoi fedelissimi, ad attaccare in ogni modo il rivale che nel 2014 decise di farsi da parte e lasciare la politica. Ma solo per tre anni. Tornato in attività nel 2017, Saar è stato una spina nel fianco del premier. L’incriminazione gli ha fornito un’occasione d’oro per insidiare un Netanyahu più debole. Tuttavia entrambi sono due falchi. Non c’è un moderato tra i due. Anzi, lo sfidante manifesta un approccio di destra persino più radicale verso i palestinesi sotto occupazione rispetto alle già dure politiche attuate dal premier uscente negli ultimi dieci anni.

 

Non è più morbido il «programma» dal capo dell’opposizione Benny Gantz, leader del partito centrista Blu Bianco. Gantz ha di nuovo accusato Netanyahu di non saper garantire la sicurezza di Israele e quella del suo primo ministro quando due sere fa da Gaza ha lanciato un razzo (intercettato) verso Ashkelon dove il premier stava tenendo un comizio. Lui, ha detto, invece «saprebbe come farlo». Ed è facile immaginare come quando a dirlo è l’ex capo di stato maggiore israeliano che guidò l’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza: circa 2400 morti palestinesi e decine di migliaia di case danneggiate o distrutte.