È una porzione di Medio oriente che abbraccia poche centinaia di chilometri lungo le frontiere e le linee armistiziali tra Libano, Israele, le Alture occupate del Golan, Siria, Turchia e Iraq. Ed è sempre più una polveriera. In poche ore abbiamo visto prima l’avvio dei pattugliamenti congiunti Usa-Turchia, condannati da Damasco, nella zona cuscinetto costituita unilateralmente da Ankara in territorio siriano – il presidente turco Erdogan minaccia inoltre di cacciare milioni di profughi siriani verso l’Europa se gli Stati dell’Ue non verseranno fondi supplementari al suo paese e non appoggeranno la safe zone turca in Siria -, poi 18 combattenti sciiti filo Iran uccisi da un raid aereo, probabilmente israeliano, nella provincia siriana di Deir ez-Zor, fino al drone israeliano abbattuto dal movimento sciita Hezbollah a Ramyah, in Libano del sud. E in serata il premier israeliano Netanyahu, alla ricerca di consensi elettorali, ha fatto di nuovo la voce grossa con l’Iran annunciando che Israele ha «smascherato» altri presunti siti segreti in Iran per lo sviluppo di un programma nucleare militare. E ha esortato la comunità internazionale a «svegliarsi» per attuare nuove sanzioni contro Tehran. Parole che sono apparse un monito soprattutto all’alleato di ferro Donald Trump che sta considerando la possibilità di incontrare e avviare un dialogo con il presidente iraniano Hassan Rohani. È una ipotesi remota ma spaventa Netanyahu.

Israele non si risparmia nella sua guerra a distanza all’Iran, entrando a suo piacimento nello spazio aereo dei vari paesi della regione e colpendo senza restrizioni le organizzazioni alleate di Tehran. Dalle centinaia di attacchi in Siria degli ultimi anni contro postazioni e depositi di armi della Guardia Rivoluzionaria iraniana, siamo passarti ai raid contro le basi delle Unità di mobilitazione popolare in Iraq, ed infine, due settimane fa, ai blitz con i droni contro alcune strutture di Hezbollah in Libano in violazione degli accordi di tregua tra le due parti del 2006. Il movimento sciita ha poi reagito colpendo veicoli dell’esercito israeliano lungo il confine, pare senza fare vittime.

Non sono stati per nulla contenuti i violenti raid aerei che hanno fatto almeno 18 morti tra le milizie filo-iraniane ad Abu Kamal, sulla frontiera tra Siria e Iraq. Questa volta Netanyahu non ha rivendicato gli attacchi come, a sorpresa, aveva fatto qualche settimana fa. Ma più parti non hanno dubbi e affermano che si tratta di missili israeliani sparati in una zona teatro di complesse operazioni e in cui sono presenti diverse forze: i miliziani curdi sostenuti dagli Stati uniti, l’esercito regolare di Damasco e le milizie sciite. Nel giugno del 2018, dei raid aerei americani nella stessa area avevano provocato la morte di 55 soldati e combattenti governativi siriani. L’attacco attribuito a Israele, il sesto dopo i cinque compiuti in Iraq tra il 19 luglio e il 25 agosto, è avvenuto il giorno dopo l’annunciata riapertura del valico di frontiera Siria-Iraq. La televisione saudita al Arabiya sostiene che i raid aerei hanno colpito l’organizzazione Al-Abdal e i gruppi Haidarion e Kataeb Hezbollah. La scorsa settimana, la Fox News ha riferito che l’Iran avrebbe realizzato una base area, chiamata “Imam Ali”, proprio nell’area di Abu Kamal. All’attacco hanno risposto dalla Siria formazioni sciite che hanno razzi verso il territorio israeliano ma non hanno raggiunto l’obiettivo. Israele da parte sua ha minacciato di far pagare al presidente siriano Bashar Assad «un prezzo alto» per aver permesso all’Iran di costituire postazioni in Siria, a ridosso delle linee israelia