«È un abominio. L’interesse nazionale è stato venduto per un piatto di lenticchie…I leader religiosi hanno capito che si può spaventare Netanyahu facilmente. Il premier ancora una volta ha preferito una conquista politica all’interesse del paese». Ben-Dror Yemini, con un editoriale su Yediot Ahronot dal titolo eloquente “Per il primo ministro la salute pubblica può andare all’inferno”, ha rappresentato la rabbia e la frustrazione di tanti israeliani per l’ennesima inversione di marcia del governo Netanyahu sulle misure da adottare in vari centri abitati per frenare la diffusione del coronavirus. Misure improrogabili di fronte a dati che non lasciano spazio ad interpretazioni: Israele ha il tasso di infezioni pro capite più alto al mondo. Secondo i dati della Johns Hopkins University, Israele ha registrato una media di 199,3 nuovi casi al giorno per 1 milione di residenti nella settimana terminata il 2 settembre. Nelle ultime settimane i tamponi giornalieri risultati positivi sono stati oltre 2000, con punte fino a 3000. Ieri si sono registrate altre 2.257 infezioni. La mortalità è relativamente bassa rispetto ai paesi maggiormente colpiti dal virus – grazie anche alla bassa età media della popolazione – ma ha superato quota 1000, con circa 500 decessi registrati solo ad agosto. Gli ospedali per ora reggono ma sono in affanno di fronte all’aumento dei ricoveri in terapia intensiva.

 

Il governo di coalizione Likud-BluBianco, presentato al momento della sua formazione come un esecutivo incaricato di combattere la pandemia, è venuto meno al suo mandato ufficiale. Sordo alle proteste che da mesi, ogni sabato, vedono migliaia di israeliani scendere in strada e chiedere le sue dimissioni per la gestione fallimentare dell’emergenza sanitaria e per il processo per corruzione che lo vede sul banco degli imputati, Netanyahu si sta dimostrando insicuro e debole con i partiti religiosi ultraortodossi che appoggiano il suo governo. Aveva già approvato misure attenuate rispetto a quelle indicate dal Commissario al coronavirus Benni Gamzu con il cosiddetto «semaforo»: lockdown in 30/40 «città rosse» ad alto tasso di infezioni – in larga parte a prevalenza ebraico ortodossa e in numerosi centri abitati palestinesi in Galilea –, misure più leggere nelle città di colore «arancione», provvedimenti di contenimento standard (mascherine e distanziamento) in quelle «verdi». Quindi domenica sera ha fatto marcia indietro dopo l’insurrezione dei religiosi che avevano minacciato di mettere in crisi il governo se fossero passate le restrizioni durante il Capodanno ebraico e le prossime festività. Al termine dei colloqui con i leader della comunità ultraortodossa, ha annunciato che non si farà più il lockdown nelle zone e nelle città «rosse». Al suo posto verrà imposto un coprifuoco notturno, dalle ore 19 alle 5 della mattina, abbinato alla chiusura delle scuole e dei commerci, peraltro non più da ieri sera come annunciato nel fine settimana ma da stasera.

 

Il passo all’indietro di Netanyahu è giunto mentre i sindaci aspettavano l’elenco finale delle comunità soggette alle restrizioni. Rabbia nei centri arabi. Mudar Younes, della rete di coordinamento delle municipalità palestinesi in Israele, ha accusato il premier di fare il possibile per aumentare la sfiducia dei cittadini arabi nel governo: «Abbiamo aspettato la decisione e ci siamo preparati e poi, all’improvviso, è stata rinviata. Il messaggio al pubblico è che le decisioni vengono prese sotto la pressione politica e non professionalmente». Accuse di incompetenza sono giunte anche dalle forze politiche di opposizione che in qualche caso hanno persino chiesto di non rispettare i provvedimenti annunciati da Netanyahu.  «Questa è anarchia», ha replicato il premier, accusando l’opposizione di spingere gli israeliani a non prestare attenzione alle norme contro il contagio e a non ascoltare gli ordini della polizia.