L’annuncio che presto il Bahrain aprirà un’ambasciata in Israele e altrettanto farà lo Stato ebraico a Manama, è il risultato più concreto del vertice a tre che si è tenuto ieri in Israele con il segretario di Stato Mike Pompeo, il premier Benyamin Netanyahu e il ministro degli esteri del Bahrain Abdellatif al-Zayani. Il resto è solo glorificazione dell’Accordo di Abramo, la normalizzazione delle relazioni tra Israele e tre paesi arabi – Emirati, Sudan e Bahrain -, che l’Amministrazione Trump ha mediato nei mesi scorsi. Le politiche contro l’Iran sono lo scopo vero della missione di Mike Pompeo in Medio oriente – andrà anche in Arabia saudita, negli Emirati e a Doha – l’ultima da segretario di Stato. Anche se a far clamore sui media è più la visita che il capo della diplomazia Usa farà all’insediamento coloniale israeliano di Psagot, nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione militare.

 Pompeo ieri ha evocato più volte l’Iran, che, stando a quanto rivelato dal New York Times, Trump avrebbe voluto – forse ancora ci pensa – attaccare militarmente nelle prossime settimane, le ultime del suo mandato. «L’Accordo di Abramo – ha affermato il segretario di Stato nella conferenza stampa con Netanyahu e Al Zayani – dice all’Iran che la sua influenza si sta riducendo nella regione e che è più isolato di sempre». Al Zayani ha ricordato che «occorre risolvere il conflitto tra Israele e i palestinesi» e ribadito il sostegno alla soluzione a Due Stati, recitando così il ruolo del dirigente arabo che ha a cuore le sorti dei palestinesi sotto occupazione abbandonati dal suo paese per andare subito all’accordo con Netanyahu. Il premier israeliano da parte sua ha avuto parole di gratitudine per l’alleato Donald Trump, che ha realizzato una parte importante dei sogni della destra (e non solo) in Israele. «Non ci sarebbero stati gli accordi di Abramo senza il sostegno decisivo e la leadership del presidente Trump», ha detto ringraziando l’Amministrazione uscente «per il lavoro svolto». Poco dopo da Washington hanno ringraziato annunciando nuove sanzioni contro l’Iran che prendono di mira la Fondazione Mostazafan e 160 delle sue sussidiarie collegate alla Guida suprema Ayatollah Ali Khamenei.

Netanyahu comunque ha voltato pagina dopo le esitazioni successive al voto del 3 novembre. Il capitolo Trump per lui è terminato martedì sera quando per la prima volta ha definito Joe Biden il «presidente eletto degli Stati uniti». E il vincitore delle presidenziali Usa ha prontamente proclamato il suo sostegno alla sicurezza dello Stato di Israele «ebraico e democratico». Senza escludere colpi di coda contro l’Iran di Trump, Netanyahu e i suoi partner di governo «centristi», il ministro della difesa Gantz e il ministro degli esteri Ashkenazi, studiano ora la strategia più adatta per persuadere Biden a tenere alta la pressione su Tehran, mantenendo le sanzioni e adottando altre misure. Nel frattempo mandano segnali inequivocabili dell’intenzione di Israele di agire da solo contro l’Iran, a costo di scatenare una guerra regionale, se Biden allenterà la presa. Il raid, tra i più pesanti degli ultimi mesi, compiuto dall’aviazione israeliana nella zona di Damasco nella notte tra martedì e mercoledì, parla da solo. Secondo alcune fonti avrebbe provocato dieci morti, alcuni dei quali iraniani delle Forze Quds, e colpito presunti depositi di munizioni del movimento sciita libanese Hezbollah alleato, come Tehran, della Siria. L’agenzia di stampa Sana ha confermato solo tre morti, tutti soldati siriani. Israele descrive il raid come una risposta agli ordigni esplosivi ritrovati l’altro giorno lungo le linee armistiziali con la Siria, sul Golan occupato.

Barak Ravid, uno dei giornalisti israeliani meglio informati sul fronte diplomatico, spiega che il governo Netanyahu vuole essere coinvolto in ogni aspetto del rapporto tra la futura Amministrazione Biden e Tehran. In sostanza intende evitare l’isolamento in cui si è ritrovato nel 2015 quando l’amministrazione Obama decise di unirsi alle parti firmatarie dell’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano, dal quale Trump è uscito nel 2018. Israele sa che il piano di Biden è quello di tornare nell’accordo provando a negoziare con l’Iran una intesa più ampia e di più lunga durata. Il ministro degli esteri Ashkenazi, parlando alla Knesset, ha spiegato che l’obiettivo è assicurarsi che qualsiasi accordo futuro degli Usa con l’Iran tenga conto delle posizioni israeliane. Ashkenazi, aggiunge il giornalista, ha già preso contatti con il team di transizione di Biden. Non è chiaro se Netanyahu condivida tutte le mosse fatte da Ashkenazi. Ron Dermer, ambasciatore negli Stati Uniti, legato a doppio filo al premier, ripete che sarebbe un errore per Biden tornare all’accordo del 2015.