«In Medio Oriente per ballare il tango occorrono tre persone. Siamo già in due: Israele e Usa, ora bisogna vedere se ci sono anche i palestinesi». Ieri al suo arrivo a Washington, prima di incontrare il presidente Obama alla Casa Bianca, il premier israeliano Netanyahu ha fatto sapere di essere pronto ad esibirsi in un spericolato tango diplomatico, mentre i palestinesi non intenderebbero scendere in pista. In realtà Netanyahu non vuole andare oltre un lentissimo ballo del mattone che gli consenta di guadagnare altro tempo. Così come aveva detto alla partenza da Tel Aviv, il premier israeliano, appena atterrato sul suolo americano, ha ribadito che durante l’incontro con Obama «difenderà gli interessi vitali di Israele» contro ogni pressione. Le previsioni degli analisti israeliani ieri erano che Netanyahu confermerà ad Obama la rigidità del suo governo su molti dei punti in discussione, a cominciare dalla «sicurezza», dicendosi allo stesso tempo pronto ad accettare lo slittamento della conclusione delle trattative, dal prossimo 29 aprile a fine anno. In questo modo non solo guadagnerà altro tempo ma proverà a mettere in difficoltà il presidente palestinese Abu Mazen, contrario a un allungamento dei tempi del negoziato.

In questa complessa partita a scacchi, l’interrogativo principale è sempre legato a cosa faranno gli americani. Solerti, tanto per fare un esempio, nel minacciare sanzioni contro Vladimir Putin e la Russia per la crisi in Ucraina, Obama e il segretario di stato John Kerry “in nome della pace in Medio Oriente” faranno altrettanto con Netanyahu che tutto vuole meno che andare a un accordo con i palestinesi? Meglio non farsi troppe illusioni. Non è il caso di dare peso eccessivo a quanto ha scritto domenica il giornalista Jeffrey Goldberg, di Bloomberg, che ha intervistato Obama, anticipando che il presidente americano dirà a Netanyahu che il tempo stringe e che Israele affronterà una sfida demografica interna mantenendo l’occupazione dei Territori palestinesi e che forse subirà l’isolamento internazionale se non andrà a un accordo con Abu Mazen. Ma gli Usa non alzeranno i toni oltre un certo punto con il premier israeliano al quale hanno già dovuto far digerire l’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano che Tel Aviv continua a contestare.

Obama piuttosto cercherà da “buon alleato” di convincere e non imporrà a Netanyahu l’accordo-quadro preparato da Kerry e che riguarda i temi principali del conflitto: Gerusalemme, i confini tra Israele e Stato di Palestina, la sicurezza, i profughi e il riconoscimento reciproco. Senza dimenticare il problema dell’espansione delle colonie israeliane. Un po’ poco per una Amministrazione che in due settimane si gioca il successo o il fallimento delle trattative israelo-palestinesi rilanciate da Kerry lo scorso luglio. Due settimane perchè Obama il 17 marzo vedrà, sempre alla Casa Bianca, Abu Mazen. E l’unico “jolly” che hanno in mano agli americani è quello di imporre al presidente dell’Olp un accordo-quadro che potrebbe compromettere la realizzazione delle aspirazioni di libertà e sovranità dei palestinesi.

Nel frattempo le statistiche continuano a confermare la corsa alla colonizzazione dei Territori occupati lanciata dal governo Netanyahu. Nel 2013 le attività edilizie negli insediamenti ebraici in Cisgiordania hanno registrato una eccezionale impennata, secondo dati pubblicati ieri dall’Ufficio centrale di statistica israeliano. L’avvio della costruzione di nuovi alloggi è balzato da un totale di 1.133 nel 2012 a 2.534 nell’anno seguente e ha un ritmo nettamente più elevato rispetto alla media nazionale di Israele. «Il governo Netanyahu – ha commentato il leader di Peace Now, Yariv Oppenheimer – ha un’unica priorità: la costruzione negli insediamenti. Né il processo di pace né la penuria di alloggi in Israele gli fanno alcuna impressione». Da parte loro i coloni ebrei chiedono a Netanyahu di ”tenere duro” e di continuare su questa strada. Secondo Danny Dayan, leader di Yesha, il consiglio di coordinamento delle colonie, l’intervista a Bloomberg di Barack Obama indica la «grande incomprensione della realtà della nostra regione, simile a quella mostrata altrove dalla amministrazione Obama».