Lo scorso 17 marzo, giorno delle elezioni in Israele, una grande euforia si era impadronita del partito al governo. Il grande premier Netanyahu sorrideva alle folle dei sostenitori che lo chiamavano «il mago»; 42 giorni dopo, 90 minuti appena prima della scadenza fissata dalla legge, il mago, sudato e provato, ha telefonato al presidente del paese per comunicargli che riuscirà a presentare la coalizione di 61 membri (su un totale di 120) la prossima settimana.
Le grandi e banali discussioni seguite alla giornata elettorale non hanno potuto nascondere il fatto che il vero problema non è nella sconfitta del laburismo e dei suoi alleati ma in due questioni di base. La prima: l’opposizione a Netanyahu in generale è riuscita solo a ribadire il «no a Netanyahu» senza offrire alcuna alternativa reale nel campo sociale, economico e politico.

La seconda: ben al di là della contesa elettorale, il sistema politico non si confronta con la realtà ed è dominato da un consenso caratterizzato da ultranazionalismo, razzismo e fondamentalismo.

Quando il ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, un estremista nazionalista e razzista ma anche molto opportunista, ha annunciato l’abbandono della coalizione, molti hanno creduto che fosse una bella notizia. Fino ad allora Netanyahu poteva contare su 67 membri, il che gli permetteva un certo spazio di manovra rispetto al fronte ultranazionalista del ministro Bennett. Anche le voci circa un possibile negoziato con l’opposizione per creare un governo di coalizione nazionale servivano da elemento di pressione sull’ultradestra. Quando all’ultimo momento è arrivata la notizia che Lieberman ci lasciava – per il momento – è diventato chiaro che la chiave per la coalizione era nelle mani di Bennett e dei suoi otto deputati.

Il partito di Bennett, Habait hiehudi (La casa ebraica) è una nuova edizione ultranazionalista del partito nazional-religioso che in altri tempi era moderato. Oggi è il più diretto rappresentante dei coloni nei territori occupati; gli sono stati affidati il ministero dell’educazione, della giustizia e dell’agricoltura. Nel campo dell’educazione, il partito potrà così accelerare l’indottrinamento nazionalista e clericale già radicato nel sistema. Il campo della giustizia, poi, è stato affidato ad Ayelet Shaked, una demagoga ignorante che farà tutto quanto in suo potere per limitare ulteriormente i già flebili orientamenti liberali della magistratura e che si dichiara e manifesta continuamente contro alcune delle garanzie di base del sistema legale israeliano. Infine, Uri Ariel come ministro dell’agricoltura potrà continuare le manovre a favore dei coloni che già guidava quando era ministro dell’habitat.

Di fronte alle proteste nel suo partito che, vincitore alle elezioni, non ottiene posti chiave nel governo, Netanyahu avrebbe annunciato di tenere il ministero degli esteri. Perché? E’ un modo per insinuare che il primo ministro ritiene che la coalizione sia malferma e che ogni deputato possa essere risolutivo per la sua caduta. Significa che il primo ministro cercherà di iniziare trattative discrete con l’opposizione per arrivare a un governo di unità nazionale. Le prese di posizione dei laburisti sono molto chiare: «Faremo un’opposizione puntuale al governo e indicheremo la vera alternativa». Ma le poltrone della leadership già oscillano e si torna al ruolo triste giocato negli ultimi decenni: mostrare al mondo il «volto moderato e umanista dell’unica democrazia del Medio Oriente».

Il grande Perez che faceva propaganda a Sharon, la grande Livni che trattava senza posa con i palestinesi e tanti altri che hanno dato una copertura liberale – per gli occhi di israeliani stupidi e di europei e statunitensi ignoranti e apatici – a un sistema che dovrebbe invece essere combattutto nel suo insieme.
In questi giorni «Shovrim Shtika» (Rompere il silenzio) pubblica nuove testimonianze sui crimini compiuti durante l’ultima guerra da soldati israeliani. «Logicamente» tutti, anche quelli dell’opposizione, gridano ai «servitori del nemico». Senza scendere nei dettagli, ricordiamo l’essenziale: la politica israeliana, al di là della retorica, è una chiara combinazione di fondamentalismo e ultranazionalismo.

Questo significa l’occupazione continua di territori nei quali oltre tre milioni di palestinesi sono sottoposti a un sistema coloniale, privati dei più elementari diritti politici e umani. La grande prigione a cielo aperto di Gaza continua a soffrire dopo gli orrori dell’ultima guerra e coltiva i semi di prossimi, sanguinosi conflitti.

Nel 2002 un deputato israeliano si presentò a una delle commissioni del Congresso statunitense e in una relazione assai mediatizzata spiegò al popolo statunitense che Saddam Hussein stava per costruire la bomba atomica, e che dunque distruggerlo era la chiave per un grande e positivo cambiamento nella regione. Pace e democrazia sarebbero fiorite grazie alla guerra al dittatore.

Questo intelligente e preoccupato deputato israeliano era Benjamin Netanyahu. L’Iraq distrutto di oggi è un chiaro esempio della politica criminale degli statunitensi e dei loro lacché nella regione.
Oggi il grande propiziatore della guerra del 2003 avverte che il pericolo è l’Iran e anche una cacofonica «opposizione» grida al pericolo mortale delle armi atomiche eccetera.

Ed ecco quel che può succedere: un governo estremista, clericale, nazionalista e brutale la prossima settimana giurerà in Parlamento, ma forse il grande mago potrà fra pochi mesi tirar fuori dal cilindro una coalizione nazionale per «affrontare i gravi pericoli che minacciano Israele», e i «moderati» puliranno la faccia dell’occupazione mostrando una volta ancora al mondo come sanno parlare bene, come sanno presentare al meglio una politica che porterà la stessa Israele al disastro.

(traduzione di Marinella Correggia)