La scorsa settimana l’agenzia di stampa Ap rimarcava l’assenza della questione palestinese dalla campagna elettorale israeliana. E faceva un paragone con le passate elezioni quando una soluzione concordata con i palestinesi era il tema centrale per gli elettori. Un’analisi condivisibile solo in piccola parte.

Più correttamente dovremmo dire che è dei palestinesi, come individui e come popolo, che non interessa nulla all’opinione pubblica israeliana.

Ciò è vero da anni anche in Europa dove Benyamin Netanyahu, approfittando dell’islamofobia dilagante e del rigetto dello straniero, arabo o africano che sia, è stato in grado di far sparire le aspirazioni palestinesi dell’agenda dei governi, quasi tutti alleati di Israele.

Capitalizzando le divisioni interne palestinesi e sfruttando al meglio l’appoggio incondizionato alle sue politiche di occupazione e colonizzazione offerto dall’amministrazione Trump, il premier israeliano è riuscito a gestire la questione senza affrontare il problema del rapporto futuro tra israeliani e palestinesi.

Problema lasciato all’amico Trump che, con il suo «Accordo del secolo», pensa di risolverlo isolando e indebolendo i palestinesi sulla scena regionale e internazionale.

Perciò anche in questa campagna elettorale i temi sono stati le forme del controllo, cioè dell’occupazione, della Cisgiordania. Gaza da tempo è considerata un altro mondo, isolata e lontana, e dello status futuro di Gerusalemme nessuno parla più. Netanyahu qualche sera fa, quasi in chiusura di campagna elettorale, ha provato a dare la zampata decisiva per portare alla vittoria il suo partito, il Likud, e per ottenere l’incarico di formare il nuovo governo dal capo dello stato Rivlin.

Ha detto agli israeliani che negli ultimi due anni ha costruito 18mila alloggi per i coloni ebrei e che adesso sta per iniziare una fase ulteriore in cui la sovranità israeliana sarà gradualmente estesa a tutti, senza eccezioni, gli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata.

Un colpo di coda che, spera Netanyahu, si rivelerà decisivo come quello del marzo 2015 quando, a urne aperte, chiese agli israeliani ebrei di andare ai seggi in massa per contrastare gli israeliani arabi che, queste furono le sue parole, «stavano votando a frotte». E i sondaggi che davano vincente la lista laburista Unione Sionista, furono ribaltati dai voti veri che diedero al Likud una netta vittoria. «Da sei mesi ne vado parlando con gli americani», ha poi rivelato ai microfoni della radio militare «l’importante è procedere con l’assenso degli Usa».

Appare evidente il gioco a due. Israele si annetterà gran parte, quasi tutta, la Cisgiordania e Trump lo riconoscerà a nome degli Usa, come ha fatto per Gerusalemme il 6 dicembre 2017 e il mese scorso con il Golan siriano.

Si procede nel solco dell’ideologia della destra israeliana, da Zeev Jabotinsky passando per Menachem Begin fino a Benyamin Netanyahu: Israele va dal Mediterraneo al Giordano e gli “arabi” nella “Terra di Israele” potranno godere solo di una limitata autonomia amministrativa nei loro centri abitati. Non solo.

Netanyahu ha una pletora di partiti e partitini di ultradestra, sionisti religiosi, pronti a sostenerlo peraltro invocando soluzioni «meno generose» per gli arabi. Non si può fare a meno di ricordare l’alleanza elettorale, favorita proprio dal primo ministro, di tre formazioni di estrema destra, tra le quali spiccano i razzisti di Otzma Yehudit (Potere Ebraico). Così come si deve notare la forte ascesa negli ultimi sondaggi di Zehut (Identità) di Moshe Feiglin (un ex Likud) che propone da un lato marijuana libera e dall’altro l’annessione di tutta la Cisgiordania e «incentivi alla partenza» dei palestinesi.

Se in passato a queste idee si contrapponeva quella della “separazione” tra israeliani e palestinesi teorizzata dal blando pacifismo laburista nell’ormai tramontata (per le politiche israeliane sul terreno) vaga formula dei «Due popoli, due Stati», oggi la separazione di cui parla l’opposizione israeliana non si discosta più di tanto dalla linea del Likud. Il principale avversario di Netanyahu, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, leader della lista (solo in apparenza centrista) Blu-Bianco, «il partito dei generali» la chiamano in Israele, ha replicato all’annuncio dell’annessione di buona parte della Cisgiordania non appellandosi al rispetto delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi. Anzi.

«Piuttosto – ha detto – io punterò a un accordo regionale che abbia un sostegno mondiale. Per noi sono irrinunciabili: il controllo militare sulla Valle del Giordano, le aree omogenee delle colonie ebraiche, Gerusalemme riunificata e l’attuazione di strette misure di sicurezza a protezione di Israele». In sostanza propone ciò che vuole Netanyahu, con la differenza che il premier uscente intende annettere a Israele anche le colonie ebraiche isolate, le più militanti, spesso costruite a ridosso dei centri palestinesi. Ai palestinesi Netanyahu lascerebbe un 30% della Cisgiordania, Gantz un 40%, dicendosi pronto a «negoziare» dopo aver imposto tutte le sue condizioni.

Un quadro che non deve meravigliare in un paese dove, scriveva lo Yediot Ahronot qualche giorno fa, appena il 12% dei cittadini si proclama di sinistra. E per sinistra non si deve intendere certo quella rivoluzionaria. Per questo commette un errore chi scrive o afferma che l’economia e le questioni sociali sono stati i temi centrali di questa campagna elettorale israeliana e non più la questione palestinese. Come dicevamo, dei palestinesi, degli esseri umani, non si è parlato. Invece delle forme di controllo della loro terra occupata si è dibattuto tutto il tempo tra maggioranza e opposizione in Israele. Così è da decenni e così sarà anche in futuro.