«Entro la fine di marzo saremo il primo paese al mondo ad uscire dalla pandemia. Per quella data tutti gli israeliani che vorranno, sopra i 16 anni, saranno vaccinati». Una promessa forte quella fatta giovedì sera da Benyamin Netanyahu alla sua gente. Giunta alla vigilia del nuovo lockdown rigoroso deciso dal governo per contenere la grave diffusione contagio – che ha superato gli 8mila casi positivi al giorno questa settimana – e mentre dal ministero della sanità annunciavano la brusca frenata, per mancanza di dosi, della campagna che, con circa 1,7 milioni di immunizzati dal 20 dicembre, vede Israele al primo posto al mondo nella percentuale di vaccinati. Il primo ministro, che guarda anche ai risvolti politici di un’uscita entro un paio di mesi di Israele dalla fase più acuta della crisi, ha annunciato l’arrivo imminente di una «quantità importante di vaccini Pfizer». E anche ha dato un nome alla rinnovata spinta alle vaccinazioni: Ritorno alla vita.

Israele riceverà una spedizione settimanale fino a 500.000 dosi per un totale di dieci milioni entro la metà di marzo. Allo stesso tempo a febbraio otterrà più di mezzo milione di dosi del vaccino Moderna, con le prime 120.000 arrivate giovedì. Come il presidente della Pfizer Albert Burla sia stato persuaso a dare priorità alla fornitura a Israele milioni di dosi di vaccino, lo spiega in tutti i particolari il giornale economico Globes. Netanyahu non pagherà un prezzo più alto per le dosi come, si sussurra, sarebbe avvenuto per le forniture precedenti. Piuttosto Israele sarà una sorta di laboratorio per la Pfizer che nei prossimi mesi riceverà da Tel Aviv i risultati delle vaccinazioni, in questo modo potrà calibrare meglio le sue ricerche. Alla società farmaceutica saranno inviati dati sugli effetti collaterali, l’efficacia del vaccino, il tempo necessario per lo sviluppo degli anticorpi oltre ad età, sesso e patologie preesistenti nei vaccinati. Globes aggiunge che l’idea di proporre Israele come un grande laboratorio – in cambio di milioni di dosi del vaccino Pfizer – era emersa già in autunno in considerazione delle caratteristiche del paese: dimensioni limitate, popolazione intorno ai dieci milioni, sistema sanitario efficiente con una buona diffusione territoriale.

 Se Israele viaggia con il vento in poppa, sul versante orientale della linea verde non si vede la luce in fondo al tunnel. I palestinesi sotto occupazione militare riceveranno solo a febbraio i primi vaccini grazie all’aiuto dell’Oms, dell’Unicef, della Fondazione Jaffe e della Banca mondiale. Altre forniture sono attese solo ad aprile e maggio. Una condizione inaccettabile denuncia Amnesty International, che accusa Israele di praticare una «discriminazione istituzionalizzata» perché, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di distribuire in maniera egualitaria i vaccini anche ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Israele sostiene che, secondo gli Accordi di Oslo, spetta all’Anp di Abu Mazen assistere la popolazione civile palestinese.