Fumo al mattino, realismo di sera. Potrebbe sintetizzarsi così la giornata di ieri trascorsa tra un susseguirsi di indiscrezioni sull’annuncio imminente della ripresa del negoziato bilaterale tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), dopo tre anni di completa paralisi. Poi è riemerso lo scetticismo che sino a oggi ha avvolto le sei missioni effettuate nella regione dal Segretario di Stato americano John Kerry, «determinato a rilanciare il processo di pace».

La partita ieri sera era ancora aperta ma il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha provveduto attraverso il suo portavoce a smentire di aver accettato la ripresa delle trattative sulla base delle «linee del 1967» –  che dividevano Israele dalla Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, ossia i territori palestinesi occupati militarmente 46 anni fa – in cambio di un riferimento esplicito nella dichiarazione d’intenti  all’“identità ebraica” di Israele. Da parte loro, i dirigenti di Fatah – il partito del presidente dell’Anp, Abu Mazen – al termine del Comitato centrale tenuto a Ramallah, hanno indicato alcune «necessità per tornare al negoziato, la più importante delle quali (appunto) è che Kerry faccia un appello a negoziati fondati sul principio dei due Stati lungo le frontiere del 1967». Da quanto si è saputo la maggioranza assoluta di Fatah ha respinto i termini proposti da Kerry per riavviare i colloqui. «La leadership palestinese ha formato una commissione speciale incaricata di formulare una controproposta da presentare al Segretario di Stato», ha fatto sapere  Wassel Abou Youssef, presente alla riunione.  A questo punto dall’ufficio del Segretario di stato Usa hanno negato l’imminenza di un annuncio per la ripresa dei colloqui israelo-palestinesi, nonostante il “via libera” indiretto arrivato mercoledi’ dal capo della Lega araba, Nabil al-Arabi, e dalle petromonarchie del Golfo. «Attualmente non è previsto un annuncio della ripresa dei negoziati», ha tagliato corto la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki. Kerry comunque ieri sera è rimasto ad Amman per verificare se ci sia ancora spazio per superare le differenze.

Formule diplomatiche che consentono solo di fare ipotesi su una possibile ripresa del negoziato diretto tra Netanyahu e Abu Mazen. Quello che è certo a questo punto è la rinuncia (apparente) dei vertici di Fatah e dell’Anp alla condizione sulla quale i palestinesi hanno insistito negli ultimi anni e su cui hanno ritrovato una minimo di unità nazionale: lo stop totale della costruzione ed espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. La richiesta non figura più nel dibattito sul testo della dichiarazione di intenti, ora imperniata sulle linee del’67 e il riconoscimento dell’identità ebraica di Israele. Sembra averla spuntata, come si prevedeva, Netanyahu che si è rifiutato di congelare tutte le costruzioni negli insediamenti. Da qui l’insistenza di Fatah sull’indicazione esplicita delle linee del 1967 come base della trattativa. Altrimenti si darebbe per scontata l’annessione a Israele di Gerusalemme Est e delle porzioni di Cisgiordania dove si trovano i blocchi principali degli insediamenti colonici israeliani.

I vertici israeliani cercano inoltre di legare la ripresa del negoziato a un ammorbidimento o a un congelamento delle linee guida dell’Unione europea che, a partire da oggi, impongono agli Stati membri di non cooperare e finanziare in alcun modo le colonie israeliane nei Territori occupati. E’ stato fin troppo esplicito il capo dello Stato Shimon Peres che ha chiesto a Bruxelles di congelare le direttive «per non compromettere gli sforzi di pace». Da parte sua il presidente della Commissione europea, José Barroso, ieri dopo un colloquio telefonico con Netanyahu ha confermato che le linee guida saranno «adottate come previsto così come Israele sapeva benissimo che sarebbe avvenuto». Un interessate editoriale di Avi Temkin, pubblicato ieri dal giornale economico The Globes, metteva in risalto l’inspiegabile sorpresa degli israeliani, incapaci di comprendere che per tutto il mondo Cisgiordania e Gerusalemme Est appartengono ai palestinesi e che Israele è solo nel considerarli parte del suo territorio.