Qualche anno fa Benyamin Netanyahu vedeva nell’Africa una fonte di pericolo, potenzialmente mortale, per Israele. Descriveva scenari apocalittici parlando della migrazione e delle guerre che dal Sudan, dall’Eritrea e da altri Paesi africani, attraverso il Sinai egiziano, portavano fino alle porte meridionali dello Stato ebraico migliaia di esseri umani in fuga da conflitti, dittature o più semplicemente dalla fame. E i suoi tre governi, dal 2009 a oggi, hanno stanziato centinaia di milioni di shekel e approvato leggi e provvedimenti per fermare nel deserto gli “infiltrati”, costruire centri di detenzione e alzare una barriera lungo la frontiera con l’Egitto. «Gli infiltrati sono un duro colpo all’economia, alla società, alle infrastrutture, al welfare e alla sicurezza interna del nostro Paese», ha dichiarato in più di una occasione il premier che poi è stato in grado di coinvincere uno o più Stati dell’Africa subsahariana a ricevere, in cambio di soldi, i migranti e richiedenti asilo espulsi da Israele. Il continente tanto vituperato ora è nel cuore di Netanyahu che si appresta a partire per alcune capitali africane dove promuoverà Israele, la sua economia e le sue produzioni (soprattutto di armi e sistemi di sicurezza). Cercherà di stringere i rapporti anche per garantire a Israele appoggi decisivi negli organismi internazionali. Specialmente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove i palestinesi da tempo tentano, senza successo, di ottenere i consensi necessari per andare a una votazione dei 15 membri sul loro Stato indipendente.

È il primo viaggio in Africa di un primo ministro israeliano dal 1994, quando il premier Yitzhak Rabin si recò a Casablanca. Netanyahu conta di essere in Uganda il 4 luglio, in occasione del 40esimo anniversario del blitz ad Entebbe delle forze speciali israeliane contro i dirottatori – del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e i tedeschi della Rote Armee Fraktion (Baader-Meinhof) – di un aereo di linea con a bordo decine di passeggeri israeliani. I dirottatori chiedevano la scarcerazione di 40 palestinesi detenuti in Israele e quella di altri 13 che si trovavano nelle prigioni di Francia, Svizzera, Germania e Kenya. In quell’operazione, quest’anno molto celebrata in Israele, morì Yonatan Netanyahu, il fratello del premier.

Netanyahu è atteso inoltre in Kenya, Etiopia e Ruanda. La settimana scorsa il governo israeliano ha approvato l’apertura nei quattro Paesi degli uffici dell’Agenzia di Israele per lo sviluppo internazionale. Il premier ha spiegato ai suoi ministri che il viaggio in Africa «rientra in un grande sforzo da parte nostra per tornare in Africa in grande stile…Questo è importante per le aziende israeliane e per lo Stato di Israele. Ed è importante anche per i paesi dell’Africa». Israele ha lanciato un pacchetto di aiuti da 13 milioni di dollari per rafforzare i legami economici e la cooperazione, ad ogni livello, con i paesi africani. Offre anche la formazione per la “sicurezza interna”, cosa che già fa in Sud Sudan, un Paese giovane che vanta rapporti stretti con Tel Aviv e, secondo indiscrezioni, ospiterebbe basi militari e di intelligence dello Stato ebraico (lo stesso si dice dell’Eritrea). In passato erano note le relazioni, soprattutto militari, tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid. Mentre il mondo isolava il Paese della segregazione razziale, Israele manteneva una intesa collaborazione con Pretoria che avrebbe aiutato ad effettuare test atomici. Una scelta di campo che i sudafricani neri non hanno mai dimenticato. L’Anc di Nelson Mandela era e resta sostenitore dei diritti dei palestinesi e ha spesso preso posizione contro l’occupazione israeliana e la colonizzazione.

Dopo la sua fondazione nel 1948 Israele ebbe buoni rapporti con diversi Paesi dell’Africa nera, in contrapposizione a quelli inesistenti con gli Stati arabi africani. Queste relazioni si spezzarono negli anni ’60 sotto l’urto degli ideali di liberazione che diffondeva nel continente e in Medio oriente il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. E la distanza è rimasta ampia fino a qualche anno fa, quando Israele, per merito della “nuova politica estera” dell’ex ministro Avigdor Lieberman, ora alla difesa, ha cominciato a corteggiare alcuni Stati subsahariani, primo fra tutti il Kenya, per mettere in difficoltà la politica regionale dell’Egitto. Si è aperto un sentiero che Netanyahu intende trasformare in una autostrada con vantaggi indubbi per l’economia, le vendite di armi e gli interessi strategici di Israele, in particolare nell’Africa orientale da dove è possibile tenere sotto osservazione la vasta area che va dal Mar Rosso fino al Golfo e l’Oceano indiano.