Di uno degli uomini più corrotti della stagione di Trump. Ma anche di come le grandi telco, le compagnie telefoniche statunitensi siano in grado di “comprarsi” – letteralmente – il consenso in rete. E ancora: di come forse sia arrivato il momento di riflettere su cosa significhi l’ormai abusata espressione: “partecipazione diretta” on line. O dell’incredibile meticolosità degli attivisti digitali americani. E infine, di una sentenza, pronunciata due giorni fa, dalla procura generale di New York.

C’è tutto questo dentro una storia, appena conclusa. Una storia che va raccontata, allora, dall’inizio.

Partendo dallo sfondo. Si parla di net neutrality, la neutralità della rete. Che non è un principio astratto: significa che chi fornisce i servizi non dovrebbe dare la priorità a chi paga di più, i provider non potrebbero segmentare e controllare l’accesso degli utenti per favorirne alcuni a scapito di altri.

Il termine se lo inventò Tim Wu, professore americano, diciotto anni fa. Da allora però le cose in rete, com’è noto, sono cambiate. Tanto e tutte in peggio.

Le tariffe differenziate fecero così, più o meno dodici anni fa, il loro ingresso in America. Con conseguenze allarmanti: è noto il caso di una stazione dei vigili del fuoco californiana che pagava una tariffa base, la minima, e che durante una drammatica emergenza riuscì a comunicare lentissimamente. Ritardando i soccorsi.

Si è andati avanti così lo stesso, però, fino a quando Obama, nel novembre del 2014, chiese alla FCC, Federal Communications Commission di adottare regole stringenti per difendere la net neutrality. Invito accolto nel febbraio del 2015.

Dopodiché, come sanno tutti, è arrivato il ciclone Trump. Che fra le sue prime misure nominò presidente della FCC, Ajit Pai.

Prima di allora era stato solo l’avvocato della Verizon, una delle maggiori fornitrici statunitensi di banda larga. Uno dei “personaggi peggiori e più corrotti dell’establishment” trumpiano, per usare l’espressione dello scrittore Cory Doctorow.

Nel 2017 su imput delle telco e del presidente, Pai impose la revoca delle misure per la net neutrality. Lo pretendevano le grandi compagnie del settore. Che chiedevano più banda a loro disposizione per vendere meglio i loro i film ed i loro eventi a chi era disposto a pagare di più. A scapito di chi si sarebbe vista ridurre la velocità di connessione.

Lunghissima premessa ed eccoci alla storia vera e propria.

Siamo nei giorni caldi dell’abrogazione. Le associazioni e i movimenti della società civile cercavano i modi per opporsi al taglio della norma. Ma – come dimenticarlo? era il periodo nel quale Trump ed i suoi sembravano poter travolgere qualsiasi ostacolo. Finché – un po’ a sorpresa – arrivò a schierarsi a difesa della net neutrality anche un famoso anchorman, John Oliver, durante il suo show televisivo. Di solito mai molto netto nelle posizioni politiche e con un’audience piuttosto vasta, fatta di famiglie. Colti di sorpresa, Pai e la maggioranza di destra della FCC trovarono un’idea per superare l’impasse: fare una consultazione pubblica on line.

John Oliver, sostenuto da un enorme gruppo di associazioni invitò quindi le persone a sfruttare quest’occasione e a scrivere la propria opinione sull’argomento.

Cosa accadde? Nei giorni successivi il luogo virtuale dove si dovevano indirizzare i pareri, rimase bloccato. L’organizzazione “fight for the future” denunciò Pai, sostenendo che il blocco era un tentativo di censura. Il presidente si difese sostenendo invece che il sito della FCC era stato oggetto delle attenzioni degli hacker, di un attacco Ddos. Facendo intendere, velatamente, che i responsabili erano da cercare fra gli attivisti digitali.

Poi, il sistema è tornato in funzione. Per diverse settimane.

I risultati? Un boom di post e messaggi, che ha superato qualsiasi altra consultazione on line nel mondo: 22 milioni. Con una stragrande maggioranza di pareri che sosteneva la necessità di abrogare qualsiasi norma a tutela della neutralità.

Sulla base di questo risultato, Pai è andato avanti col suo progetto, zittendo i critici.

Non aveva però fatto i conti con le capacità analitiche di chi si batte per la correttezza ed i diritti in rete.

Corey Thuren, è uno di loro. E’ un tecnico, un manager e sfruttando le potenzialità dell’intelligenza artificiale, ha scoperto molto facilmente che quella consultazione era falsa. Tutta falsa e farlocca.

Ed anche in modo piuttosto ridicolo: c’era un account che avevano inviato un milione – un milione – di email. C’erano centinaia di migliaia di indirizzi di posta inventati: misterx@pornohub.com . Si, “pornohub” –  che sia chiaro: non fornisce indirizzi email – è uno dei nomi che ricorrono più spesso negli elenchi.

E ancora. Leggendo il report completo (va detto: molto tecnico e anche un po’ noioso) si scopre che sono state centinaia di migliaia le batch, che consentono l’esecuzione di programmi e quindi l’invio di email senza l’intervento degli utenti. Oppure, scoprire che a pochi giorni dalla fine della consultazione on line, sono arrivati decine di migliaia di messaggi, spediti in blocco.

Chi ha analizzato quei 22 milioni di pareri ha insomma rivelato che addirittura 18 milioni erano palesemente finti. Falsi in modo grossolano. Solo quattro milioni erano quelli autentici, e fra questi avevano vinto – e di parecchio – i difensori della net neutrality.

La cosa non è passata inosservata. Diverse organizzazioni si sono rivolte alla magistratura. Con poche speranze, in verità.

Il procuratore generale dello stato di New York Letitia James in conferenza stampa dopo la condanna per i commenti falsi contro la net neutrality, foto Kathy Willens /AP

 

La sorpresa è invece arrivata pochi giorni fa: dopo una lunga indagine, c’è stata una sentenza. Di condanna. Emessa – lo si è detto – dalla Procura Generale di New York. Che a differenza del burocratese che siamo abituati a leggere dalle nostre parti, quando entra nel merito esordisce con un aneddoto: “Il signor Langsam, nella consultazione promossa dalla FCC, ha esortato l’agenzia ad eliminare le regole denominate neutralità della rete. Tuttavia, abbiamo rilevato un problema: il signor Langsam era morto sette anni prima di quel messaggio”.

L’OAG – la procura – comincia così, sentenziando “senza alcun dubbio” che milioni di commenti erano falsi. E tutto questo – parole sue – “è preoccupante, perché solleva dubbi su rilevanti questioni politiche e sulla democrazia”.

Hanno imbrogliato, dunque. E la dottoressa Letitia James – che ha presieduto la Corte – nella sentenza ha punito alcuni colpevoli: le società Fluent, React2Media e Opt-Intelligence che hanno spedito milioni e milioni di pareri falsi, rubando indirizzi, inventandosene altri.

Pagheranno con 4 milioni di multa. Il giudice ha fatto anche altri nomi, però, più rilevanti: il gruppo commerciale “Broadband for America”, che rappresenta aziende come AT&T, Comcast e Charter, che ha speso 4 milioni di dollari per finanziare la campagna a sostegno di Pai. Anche se non sono state trovate prove che la lobby delle telco sapesse della truffa, dell’invio di messaggi falsi. Hanno insomma pagato la campagna ma non è stato possibile accertare che sapessero fino in fondo come era stata organizzata.

Sul piatto però c’è quella che possiamo considerare una condanna politica: “… chi ha organizzato la consultazione ha volutamente ignorato gli allarmi… sarebbe stato semplice scoprire la contraffazione… interessi hanno impedito che lo si facesse… Tutto questo è inquietante… bisognerà trovare strumenti per impedirlo”.

E bisognerà continuare anche le indagini su questa truffa per accertare altre responsabilità.

Cosa resta? L’impegno preso in campagna elettorale da Biden a ripristinare la net neutrality, resta la necessità di nominare il nuovo direttore della FCC, dove, dopo le dimissioni di Pai, ancora ci sono solo quattro membri: due trumpiani, due democratici. Cose tutte in agenda ma fino ad oggi non realizzate.

Di più: forse resta qualcos’altro. In uno degli studi che hanno svelato la truffa, quello già citato di Corey Thuen, c’è un passaggio dove l’analizzatore spiega come ha provato ad istruire l’intelligenza artificiale per l’indagine. Facendo fare “esperienza” sui post falsi dei finti elettori di Trump. Ma non c’è stato verso: non c’erano contenuti sufficienti.

Perché più o meno tutti i pareri farlocchi dicevano solo e soltanto che la neutralità della rete uccideva “il libero mercato”. Imbroglioni senza fantasia, dunque, potenti con un solo ritornello. Farlocco.