Alla domanda su quale sia la responsabilità di essere figlia di Ezra Pound, la risposta suona imprevista: «Mi verrebbe da commentare che le figlie dei poeti finiscono in convento, in manicomio o suicide, ma comunque donando qualcosa.

Dicono che la figlia di Dante sia andata in convento; dicono che la figlia di Joyce impazzì, un figlio di Laughlin si è suicidato.

Non è facile essere figli dei poeti. Infatti, i poeti non dovrebbero avere figli, e qualora li avessero, dovrebbero farli educare da altri, come mio padre ha fatto con me». È vero, Mary de Rachewiltz crebbe lontana dai genitori (la madre, la violinista Olga Rudge, era sempre in tournée), affidata alle cure francescane di una coppia di contadini a Gais nel Tirolo, al confine con l’Austria.

È vero ma anche un poco inesatto, perché il padre la tenne sempre d’occhio, e prima di mandarla in collegio dalle suore a Firenze presso la medicea Villa La Quiete, le propinò ABC (i. e. «leggi») di tutti i generi; le indicò la lettura di classici imprescindibili, fuori dai canoni ufficiali; le raccomandò la difesa delle proprie idee e l’attenzione all’economia; le insegnò a tradurre poesia mentre, scambievolmente, lei gli correggeva o aggiornava l’italiano («non si dice …», «non si dice …»!); la guidò alla scrittura della poesia («Non invertire l’ordine delle parole, la rima ci sarà anche con l’ordine naturale»); nel 1945, dal campo di detenzione di Pisa, la delegò alla consultazione di libri, epiteti omerici, grecismi esatti (il suo greco vacillava, lo ammetterà solo verso la fine: «e dovrò imparare un po’ di greco per arrivarci»); le affidò la battitura a macchina dei primi Canti Pisani.

Questo e altro risultano in ordine sparso in Ho cercato di scrivere Paradiso Ezra Pound nelle parole della figlia: conversazioni con Mary de Rachewiltz di Mary de Rachewiltz e Alessandro Rivali, con l’aggiunta di un breve carteggio inedito di Pound (Mondadori, pp. 262, euro 19,00).

Museo di famiglia a Brunnenburg

Con Rivali si va a Brunnenburg, nel comune di Tirolo di Merano, dove nell’antico castello più volte risistemato, si è costituito nel tempo una sorta di museo di famiglia: un cappello scolorito, una sciarpa gialla con un ideogramma confuciano («uomo accanto alla parola data»), un bastone, un cappotto nero, frammenti lirici appuntati su casuali ricettacoli, statuine di Gaudier-Brzeska, il calco della ieratica testa vorticista, una macchina per scrivere accompagnata da un bigliettino bilingue («Si prega («Bitte») di non toccare»), un manoscritto di Goethe, disegni preziosi, strumenti di falegnameria (i suoi: del padre), un ritratto verbale per mano di Hemingway («Ha il temperamento di un ‘toro da combattimento’… Nessuno è sicuro quando c’è lui nell’arena»), pensieri di Pound su manifesti fatti stampare a proprie spese («La Purezza Funge Senza Termine, in tempo e spazio», «Lucro privato non costituisce la prosperità», «Formando di disio nuova persona» …), libri con annotazioni di suo pugno. «Sembra che non se ne sia mai andato», si commenta. Il ticchettio di una delle sue macchine per scrivere echeggia ancora fra quelle mura. Il poeta, non la sua ombra, c’è, esiste e assiste ora per ora Mary, la quale chiude e apre le sue giornate con la voce risalente dalla mai interrotta rilettura dei Cantos, il capolavoro del padre, l’opera aperta rimasta non finita, che mai finisce di auto-rimanifestarsi («mais finir …?», si chiedeva Brancusi). È il destino delle grandi creazioni dell’ingegno umano.

Rimettere a fuoco il poeta e l’uomo

Mary, ormai novantatreenne, ha accolto l’intervistatore con benevolenza, nonostante le sue recenti tentazioni votive al silenzio. Questa volta per fortuna non l’ha fatto. Ed eccola, dunque, alla ribalta discreta di questo libro a due (tre) voci, che ci stupisce per spontaneità di parola, emozione, evocazione, precisione, atmosfere. E tocco lirico lasciato da poeta in proprio: di Mary. Lo schema è ancora quello di «far conversazione», di non rompere una tradizione che risale ai Cantos, e sostenere: «l’idea che la CONversazione / non debba languire per sempre», soprattutto quando è «basata su res non verba» (Canto 82). In questo caso, «rimettere a fuoco l’attenzione sul poeta e sull’uomo», dopo i tanti equivoci, le ferite, le idee sbagliate di chi non ha letto Pound ma ne parla senza presupposti e con molta ignoranza, sembra essere il fine del conversare, nella speranza che anche le parole esperte di chi le pronuncia non vengano equivocate, che atmosfere, res e verba non vengano ribaltate, come accaduto altre volte. Ci fideremo dello scriba di turno.

Di che cosa hanno conversato Mary e il suo scriba a Brunnenburg? Dei Cantos, naturalmente, della loro ‘americanità’ («sono la Commedia degli Stati Uniti d’America, anche se forse gli americani non l’hanno compreso»), e di come tradurli («Credo di non essere riuscita a tradurre i Pisani. Sono intraducibili»), dell’ideogramma («L’interesse per l’ideogramma forse si potrebbe vedere in un senso profetico: aveva capito che si andava verso una civiltà dell’immagine piuttosto che della parola»), dell’italiano idiosincratico di Pound e dei suoi contatti con alcuni dei nostri maggiori (e minori) poeti di allora, e poi dell’irrisolta «questione Pound» (il cosiddetto processo), del suo dibattuto ritorno in Italia (Montanelli: «Gli americani non escono bene da questo affare …»), e ancora di «Gerione», l’usuraio dalla coda aguzza di Dante, e del «prezzo giusto» e di economia, e del ruolo della Storia: «Senza Storia, non ci può essere epica e Pound cercava l’epica. Quando abbandonò la poesia lirica per l’epica sapeva che avrebbe dovuto fare i conti con la Storia.

Era così anche per Dante. Si può capire ben poco della Divina Commedia se non si conosce la Storia, le figure dei papi e degli imperatori. In aggiunta, per Pound non era possibile comprendere la Storia senza capire l’economia. Questo fu un grande passo in avanti per la sua ricerca, ma, in un certo senso, fu anche un passo fatale».

I cliché correnti

Mary parla con franchezza e fermezza delle questioni più dure. A Mussolini, del quale aveva in parte condiviso il progetto economico («aveva fatto alcune cose ‘interessanti’»), per coerenza di uomo fedele alla ‘parola’ confuciana, Pound non voltò le spalle, «mentre tutti gli italiani, che lo avevano seguito per vent’anni, in quel momento gli sputavano addosso. Era una questione di etica». Dopo l’armistizio «nessuno dei gerarchi pensò di offrire a mio padre un posto in automobile… Mio padre partì da Roma a piedi… Camminò per giorni e giorni mangiando alle tavole dei contadini, dormendo nei fienili».

E, con pacatezza, abbatte i cliché ancora correnti: «Purtroppo in Italia si continua a pensare che Pound abbia scritto soltanto i Pisani e magari che questi siano un inno a Mussolini». E quanto alcosiddetto ‘processo per tradimento’ che Pound avrebbe subìto, «non è mai stato celebrato e a lui non è mai stata restituita la personalità giuridica». Pagò con la detenzione in manicomio fra i pazzi, dovendo difendersi dal contagio della pazzia. C’è un breve memoriale di Marcella Spann, la sua ultima segretaria, che la dice lunga su com’era la vita di Pound fra i pazzi. Per continuare a tenere i piedi per terra, non solo studiava, com’era suo solito, e componeva gli americanissimi canti della sezione Rock-Drill (la Perforatrice di Roccia) ma si dedicava agli scoiattoli del parco del St. Elizabeths, il suo sollievo più grande. Infine, per chiudere con gli stinti stereotipi, «secondo cui fu antisemita o addirittura nazista. Ho avuto la fortuna – dice Mary – di leggere i Cantos con un rabbino e mi ha confermato di non aver trovato nulla di antisemita in quest’opera». Ella ha invece avuto meno fortuna nel condurre la sua vita, continuando, come roccia imperforabile nelle avversità, a occuparsi dei figli, del marito Boris, e della madre scomparsa a 101 anni nel 1996 («M’amour, m’amour / cos’è che amo e /dove sei?», scrive Pound in uno degli ultimi frammenti), a governare il castello (in questi giorni ha scoperto una nuova parola inglese: vole, topo), a scrivere le sue poesie, e soprattutto a curare l’eredità paterna: il continuo rispetto per la parola dei Cantos e la loro bellezza, come ammise Pasolini.

«The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche poesia chiusa. Dai Trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E più i giri volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola. Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un reggere la ‘sfera di cristallo’». Così Mary descrive i Cantos. Di contro, il contrappunto del padre: «Ho perso il mio centro / a combattere il mondo. / I sogni cozzano / e si frantumano – / e che ho cercato di costruire un paradiso / terrestre». È in quel «terrestre», così poco dantesco (ma è necessario andare oltre Dante), che si sarebbe infranto un sogno. Si sarebbe…