Erica R. lavora a Roma come veterinaria. A metà marzo inizia ad avere una febbre un po’ strana: sale e scende durante la giornata ma non diventa mai troppo elevata. Nel giro di una settimana anche le figlie adolescenti presentano gli stessi sintomi. Erica avverte il medico di base, che gira alla Asl la segnalazione di sospetti casi Covid-19. La Asl ordina la quarantena e preannuncia un tampone.

I giorni però passano: il primo tampone per tutte e tre arriva quasi un mese dopo la comparsa dei sintomi. L’esito è negativo, ma dopo un tempo così lungo il tampone non è significativo. La febbre in ogni caso non sparisce, dunque la Asl prolunga la quarantena per Erica e figlie. Succederà altre due volte: tampone negativo e quarantena prolungata a causa di sintomi persistenti. E così, due mesi e mezzo dopo i primi sintomi, Erica e le sue figlie si ritrovano in un vicolo cieco. I tamponi negativi le escludono dai protocolli Covid, ma i sintomi persistenti impediscono loro di svolgere una vita normale. Accedere alle strutture sanitarie per ulteriori approfondimenti è quasi impossibile, per chi ha la febbre e un provvedimento di quarantena. Uscirne sembra impossibile.

Simile la vicenda di Giovanna D., 49enne giornalista romana, che a fine marzo ha i primi sintomi lievi (febbre, mal di gola, mal di testa) ma compatibili con il Covid-19. Dopo la segnalazione alla Asl, il primo tampone le viene proposto un mese dopo. Ne avrà tre, negativi, ma oltre due mesi dopo i sintomi sono ancora lì. Ufficialmente non si tratta di Covid-19, ma ulteriori analisi escludono altre infezioni. Per la sanità pubblica, non ci sono altri protocolli da seguire: deve sperare di superare la malattia e intanto provare a condurre una vita normale, nonostante i sintomi e il rischio che il virus faccia altri danni.

Sono due storie come tante: le segnalazioni di pazienti con sintomi lievi ma persistenti a mesi di distanza arrivano un po’ da ogni regione. Nell’emergenza, il sistema sanitario non ha pensato a loro e oggi questi malati sono finiti in un limbo sanitario, in cui recuperare una vita normale sembra impossibile e il diritto alla cura è cancellato. Da un lato è colpa di un virus di cui conosciamo ancora troppo poco e che ha portato finora i medici e i ricercatori a concentrarsi sui casi più gravi. Dall’altra, di un servizio sanitario che nonostante le promesse non è stato in grado di garantire a tutti una diagnosi tempestiva né una presa in carico.

Quanti siano i malati con sintomi persistenti di Covid nessuno lo sa. Rintracciarli è difficile perché ufficialmente per la sanità non esistono. Potrebbero emergere grazie ai test sierologici, ma quelli a disposizione nei laboratori privati non sono abbastanza accurati per i fini diagnostici. Anche i tamponi, se non sono tempestivi, risultano inutili. Secondo uno studio apparso sulla rivista Annals of Internal Medicine, tre settimane dopo i sintomi la probabilità di un risultato «falso negativo» sale al 66%. Dopo i primi giorni, il virus migra dalle alte vie respiratorie nei polmoni e in altri tessuti, dove il tampone non arriva.

Non si tratta di un fenomeno solo italiano. In Catalogna, uno degli epicentri del focolaio spagnolo, i malati con sintomi persistenti di Covid-19 hanno dato vita a un collettivo e in una settimana hanno raccolto quattrocento adesioni attraverso un sito e un profilo twitter. Grazie alla loro iniziativa, gruppi organizzati di malati con sintomi persistenti di Covid sono sorti anche a Madrid e in Andalusia. Le loro storie assomigliano a quelle di Erica e Giovanna.

«L’incertezza sull’evoluzione della nuova malattia, che nemmeno gli operatori sanitari sanno come affrontare, è diventata sempre più forte settimana dopo settimana» si legge nel loro manifesto. «Il nostro senso di impotenza è aumentato ancora di più quando abbiamo capito che non esiste un protocollo di sanità pubblica per affrontare situazioni come la nostra». I malati chiedono di raccogliere dati sulla loro condizione, di elaborare protocolli di cura e un accesso pubblico ai test, che anche in Spagna non sono stati garantiti a tutti: «Si possono fare solo in centri privati” scrivono “ma l’assistenza sanitaria è un diritto universale che non deve escludere nessuno”