È ancora senza paternità l’attentato che mercoledì mattina ha raggiunto il primato del più sanguinoso attacco suicida che la capitale afghana ricordi.

Fonti del ministero della Sanità di Kabul hanno contato almeno cento morti e 600 feriti ma è un bilancio per difetto: ci sono ancora una ventina di dispersi e non sono stati trovati i corpi dei poliziotti di guardia al checkpoint di Zarbaq Square, nella zona diplomatica di Wazir Akbar Khan, nel pieno centro della capitale.

Un’area vicina all’ospedale di Emergency che a quell’ora, le 8.20 del mattino, è solitamente un ingorgo di mezzi civili guidati da chi va al lavoro.

Tra i dispersi c’è il comandante Assadullah Andarabi dell’Afghan National Police che, al comando di otto poliziotti, era di guardia al checkpoint. Le prime ricostruzioni dicono che l’ufficiale avrebbe fermato la cisterna bloccandola nella piazza e che il conducente si sarebbe fatto esplodere forse ancora lontano dal suo obiettivo reale.

Il risultato dell’attentato resta comunque spaventoso: in termini di vite umane, mutilazioni e danni che la Camera di commercio afghana ha stimato in circa dieci milioni di dollari.

I dubbi sulla paternità si devono sia al fatto che, con una rapidità inconsueta, i talebani hanno preso le distanze dal massacro, sia che lo Stato islamico, invece notoriamente rapidissimo nelle rivendicazioni e incline a stragi con grandi numeri (come nel luglio dell’anno scorso), non ha fatto alcuna dichiarazione ufficiale né ufficiosa.

Uno dei suoi punti di forza è proprio la comunicazione rapida ed efficace che spesso si serve di lanci via Twitter, pagine social o di agenzie di notizie come la famosa Amaq il cui fondatore, l’ideologo del Bahrein Turki al-Binali, sarebbe stato ucciso in un raid a Raqqa.

Notizia confermata proprio da fonti dell’Isis. Isis che ha invece rivendicato un’autobomba con kamikaze che ieri si è fatto esplodere poco lontano dall’aeroporto di Jalalabad nella provincia orientale di Nangarhar – dove il 13 aprile gli americani hanno testato la super bomba GBU-43 Moab – che è ritenuta la base dei militanti della cosiddetta “Provincia del Khorasan”, come il Califfato ha rinominato l’area afghano pachistana.

Avrebbe ucciso un soldato afghano, dicono fonti ufficiali, e ne avrebbe ferito un altro. Ma c’è un piccolo giallo: poco prima che Site Intelligence Group – l’organizzazione che monitora le attività jihadiste – rilanciasse la notizia data dal Califfato (secondo cui i morti sarebbero invece sette), anche il sito dei talebani riportava la notizia di un attacco a Jalalabad che aveva ferito 5 soldati americani. Ma nelle ore seguenti la notizia è sparita.

Come che sia, il massacro di Kabul per ora non ha padrini anche se i servizi afghani sono sicuri che dietro la strage ci sia la fazione talebana degli Haqqani, sanguinaria e favorevole agli attentati stragisti con grandi numeri, notoriamente vicina ai servizi segreti pakistani.