Il nome di Salvador Elizondo, il più originale e sofisticato tra gli scrittori messicani della sua generazione, è ancora oggi poco noto in Italia, nonostante il piccolo editore Liberaria abbia riproposto mesi fa un suo singolarissimo romanzo, Farabeuf, in una nuova e bella traduzione. Difficile, quindi, supporre che anche il lettore italiano più ostinato e curioso abbia avuto occasione di imbattersi in una delle riviste da lui fondate, S.NOB, vissuta solo dal giugno all’ottobre del 1962, ma abbastanza eterodossa da lasciare il segno («uno sputo contro il tedio culturale degli anni Sessanta», l’ha definita il romanziere Antonio Ortuño), grazie ai paradossi, agli sberleffi e allo humor nero prodotti dai suoi collaboratori, i più straordinari «ragazzi terribili» dell’epoca, come Álvaro Mutis, Jorge Ibargüengoitia, Alejandro Jodorowsky e Juan  García Ponce.
Tra loro, con una rubrica tutta sua chiamata «Children’s corner», c’era anche l’inglese Leonora Carrington, stabilitasi in Messico nel 1942, dopo essere scampata prima all’autorità di una famiglia ricchissima e conformista (a diciannove anni aveva seguito a Parigi il surrealista Max Ernst, assai più anziano di lei), poi al manicomio in cui l’avevano rinchiusa mentre fuggiva dall’occupazione tedesca, e infine a una lussuosa clinica per malattie mentali nel lontano Sudafrica, dove suo padre intendeva confinare la figlia «scandalosa».

Jodorowsky conservò quell’album
Pittrice e scultrice di grande talento, etichettata da sempre come surrealista (una definizione che le andava stretta, e che finì col rifiutare), autrice dell’incantevole romanzo Il cornetto acustico e del doloroso memoir Giù in basso, nonché di racconti visionari e macabri – la recentissima edizione italiana si intitola La debuttante – Leonora Carrington trascorse in Messico buona parte della sua lunga vita e là si sposò con il fotografo ungherese Chiki Weiss, dal quale ebbe due figli. E proprio per Gabriel e Pablo, quando ancora non sapevano leggere, inventò, scrisse e illustrò una decina di storie, alcune delle quali comparvero poi in «Children’s Corner», accompagnate da disegni in bianco e nero realizzati appositamente, invece che dalle immagini originarie, create anni prima e conservate in un album noto solo alla famiglia.

Quell’album, molto tempo dopo, Leonora lo regalò a Alejandro Jodorowsky in partenza per Parigi, che lo conservò come una reliquia preziosa e dopo la morte della pittrice, nel 2011, lo restituì a uno dei suoi primi destinatari, Gabriel Weisz. A sua volta, Weisz lo passò al Fondo de Cultura Económica, storica casa editrice messicana, perché lo trasformasse in due libri bellissimi, usciti nel 2013 e intitolati entrambi Leche del sueño: uno, di grande formato, è un perfetto facsimile dell’originale, in cui appaiono la svelta calligrafia dell’autrice, le sue cancellature e perfino le macchie della carta; l’altro, quasi un tascabile, offre ai bambini di oggi una versione più nitida e ordinata del testo e delle illustrazioni.

Riprendendo una definizione dello stesso Weisz, si potrebbe dire che il primo è un libro d’arte con l’aggiunta di storie, e il secondo un libro di storie con l’aggiunta di una buona dose d’arte. È questa seconda versione «infantile» di Il latte del sogno (pp.60, euro 15,00) che Adelphi, editore italiano di tutte le opere di Carrington, manda adesso in libreria nella traduzione di Livia Signorini, basata sull’edizione in inglese e non sullo spagnolo incerto e un po’ sgrammaticato dell’album, legato a un uso prettamente domestico e familiare.

Anche se non possiede le suggestioni del facsimile, così evocativo e personale, il libro offre ai bambini e agli adulti molteplici occasioni di lettura, in cui a volte è il testo a prevalere sulle immagini, tracciate in punta di penna con inchiostro seppia, e a volte è l’immagine a proporsi quale racconto suscettibile di ulteriori invenzioni ed elaborazioni, come nel caso del señor Baffo Baffuto, un Giano con due facce che divora mosche, della sua orrenda figlioletta bifronte che mangia ragni, e di una filiforme consorte sempre a testa in giù, senza braccia e con due minuscole ali da cherubino.

Proprio come nei suoi tenebrosi racconti per adulti, anche in quelli per bambini Carrington scatena un popolo di ibridi e mostri, di creature composite e grottesche alla Jeronimus Bosch, imparentate con miti e leggende provenienti da varie culture (da quella celtica, che segnò la sua infanzia, a quella maya), ma li usa solo per suscitare risate e stupore. Quando non si limitano ad esibire la loro affascinante stranezza, come in «La storia nera della donna bianca», in cui una signora dal ricco abito color carbone («neri i pigiami e pure il sapone») piange lacrime verdi e blu simili a pappagallini, i personaggi vivono avventure di assoluta stravaganza, allegramente crudeli, dove le metamorfosi più drastiche avvengono con perfetta naturalezza e si esplorano senza timore differenze e paure, tra rose spalmate di carne di capra, intingoli disgustosi e parlanti, avvoltoi in gelatina, bambini che hanno una casa in miniatura al posto della testa, o vengono morsi dai buchi del divano, o sono decapitati da una strega e ricomposti da un indio sciocco che incolla le teste nei punti sbagliati, dalle natiche alla pianta del piede.

Storie coerenti al resto dell’opera
Chi conosce la pittura e la scultura di Leonora Carrington, o la sua prosa, scoprirà che queste storie (da leggere ad alta voce, da guardare, da completare o da continuare) – sono un coerente prolungamento della sua opera, fondata su un immaginario sfaccettato e inesauribile che ci interpella di continuo con voci diverse e inaspettate, aprendo sempre nuove porte sull’incubo, sul sogno, su quello che il sipario della realtà ci nasconde e la voce della ragione rifiuta di dirci. Come in «Alice», i bambini di Il latte del sogno sono impavidamente pronti a «credere fino a sei cose impossibili prima di colazione», e, decisi a fare e disfare il mondo (proprio come Leonora, a suo tempo bambina furiosamente ribelle), ricorrono talvolta all’aiuto di adulti che sanno stare al gioco (proprio come Leonora, madre favolosamente eccentrica, che la ribellione intendeva coltivarla e trasmetterla).

«Credo che nessuno di noi possa sfuggire alla propria infanzia», ha detto Carrington in una delle sue ultime interviste, e, attraverso ogni più piccola manifestazione della sua arte, ha voluto ricordarci che, al di là di ogni stereotipo, l’infanzia è uno stato d’animo, un prezioso serbatoio al quale si può attingere fino alla fine.