Ora che il Pride di Roma avvia la stagione dell’Onda Pride, si può provare a fare il punto sull’omofobia. Forse non è più vero che sia “l’ultimo pregiudizio accettabile”, come scriveva a inizio millennio Byrne Fone nella sua storia del fenomeno. In questi quattordici anni la parola “omofobia” ha guadagnato autorevolezza e perfino gli attivisti di “Manif pour tous” preferiscono fingersi sostenitori dei diritti dei gay. Anche sui temi più controversi (matrimonio, genitorialità) la posizione omofobica non è più senso comune. Deve difendersi, attaccare, accettare di venire messa in discussione. Non è più assiomaticamente rispettabile. Il problema è che è nata una rispettabilità di segno opposto, “antiomofobica”. Come ogni perbenismo, si fonda sull’uso dell’assioma come status symbol. L’esperienza mostra che alla formula “io non sono omofobo” si può far seguire qualsiasi posizione, dalla più reazionaria alla più radicalmente progressista. L’antiomofobia rivela la sua potenziale deriva populista, il suo omologarsi e svuotarsi di significato. Il rispetto della differenza consiste allora nel non ammazzarla di botte. Nel non insultarla platealmente, nell’ammettere perfino che “io se fosse per me riconoscerei tanti diritti”. Assolti questi obblighi si può continuare a muoversi nella nebbiolina del pregiudizio minuto.

Nessuno è ormai più omofobo (tranne i bulli, i nazi, i mostri), ma diventiamo tutti un po’ omoscettici. Omoterzisti. E l’omofobia finisce per funzionare come, in certi discorsi, la shoah: un babau etico che invece di fornire coordinate sicure ha un infallibile effetto deresponsabilizzante. Ciò non significa che essa non esista più, o che non si debba più parlarne. Al contrario: dobbiamo parlarne e capirla, perché abbiamo toccato uno dei suoi paradossi. Il fatto è che le forme di discriminazione non sono tutte uguali. Tutte tracciano un alto confine di disprezzo tra Noi e Loro, e tutte amministrano con nevrotica ferocia (anche lessicale) la terra di nessuno che “purtroppo” c’è sempre: il “mezzo ebreo”, il “mulatto”, l’“ermafrodito” visti come figure sfuggenti e minacciose. Ma nell’omofobia questa zona grigia si gonfia a dismisura e viene quindi gestita in modo diverso. Forse lesbiche e gay hanno costituito in tutte le epoche un gruppo identitario ben definito (gli storici ne discutono ancora), ma di certo, che si parli della Firenze del Quattrocento o dell’America del Rapporto Kinsey, il numero di persone che hanno avuto rapporti omosessuali occasionali è assai maggiore. E la bisessualità è solo un aspetto tangibile di quel vasto spettro di comportamenti e desideri, di quel complesso scambio e furto e dono di corpi, saperi, esperienze, relazioni, che costituisce la nostra cultura delle sessualità.

In questo campo tutti sono competenti: “Sembrava che tutti sapessero che ero gay prima ancora che lo capissi io,” scrive Darren Hayes in Le cose cambiano (Isbn). Ne deriva un regime di doppia verità, che piano piano emerge in tutta la sua gravità. Per un verso il fenomeno omofobico è pura e semplice oppressione di un gruppo egemone a spese di una minoranza. Dichiararsi gay o antiomofobico è allora una presa di posizione politica: significa scegliere la propria barricata. Ma al di fuori dell’assunzione di identità, le cose vanno in altro modo. Proliferano le osmosi, le trattative, le contraddizioni, le rimozioni. Tra gli omofobi militanti del nostro Parlamento, alcuni sono gay praticanti. E del resto molti gay dichiarati e combattivi non scherzano forse con battute come “Sei proprio una gran checca” – un bel garbuglio di pregiudizio e complicità? Oppure si pensi al fatto che l’omofobia, come l’omosessualità, non agisce tanto per masse o per individui quanto per reti. Soprattutto in Italia, la sua agenzia primaria è stata la famiglia, simbolo potente oltre che occhiuta dispensatrice di riconoscimento e ricatti. E non a caso l’ultima battaglia si giocherà su matrimonio e omogenitorialità, dunque ancora sulla presa in carico famigliare. A quali condizioni? Proprio mentre l’emancipazione Lgbt raccoglie i maggiori successi, dovremmo raccontarci di più, noi gay, noi etero, noi tutti; e senza agiografie e santini. Altrimenti scopriremo che il vecchio slogan Silence=Death è più vero che mai.