Al di là degli esempi estremi sulla scia di Aspettando Godot, sono molte le opere dominate da una figura che, tuttavia, non è quella protagonista, e non compare neanche troppo in scena. Fra queste, I mandarini, il romanzo più famoso di Simone de Beauvoir, uscito nel 1954 e ambientato nella Parigi del secondo dopoguerra, che accorda particolare risalto (alternandone le prospettive) a due personaggi, lo scrittore giornalista Henri e la psicoanalista Anne; ma dà di fatto il ruolo cruciale a un altro, Robert Dubreuilh, mentore di Henri, marito di Anne, a sua volta scrittore, inoltre filosofo e politico. Un personaggio defilato, perché non fa che lavorare, incessantemente, «come un ossesso»; ma che, proprio perciò, costituisce il perno del testo.

In genere, le ossessioni come la sua hanno una connotazione drammatica: gli smodati lavoratori di cui pullula la letteratura moderna – siano travets alienati, spregiudicati affaristi o artisti geniali – appaiono sempre manifestazioni estreme degli squilibri della società borghese. Invece, lo stacanovismo di Dubreuilh ha un segno meno tragico e più ambiguo, insieme limpido e oscuro: è fede, passione, missione di vasto raggio, ma anche fanatismo, mania, vizio incoercibile; esprime al tempo stesso la fiducia nell’engagement degli intellettuali (i «Mandarini» del titolo) e l’incertezza sulla sua riuscita, il senso della sua importanza e quello dei suoi costi.

Sessantenne, già socialista, deluso dall’involuzione del partito, Dubreuilh si è dedicato per anni solo ai romanzi, ma senza dimenticare la politica; e si è quindi gettato a capofitto nella resistenza antifascista. Dopo la liberazione, vedendo nel comunismo la speranza principale del proletariato, cerca di non contrastarlo, al punto da non divulgare le notizie che iniziano a filtrare sui campi di concentramento sovietici; fonda però un movimento di sinistra autonomo dall’Urss; e intanto avvia un saggio sulla situazione dell’epoca.

Un uomo imperiosamente vivo
La sua spasmodica dedizione al lavoro rende il suo spazio nella vicenda tanto esile sul piano concreto quanto enorme su quello ideale. Dubreuilh è sovente fuori scena perché assorbito dalle riunioni, dai comizi, soprattutto dal suo libro: che prosegue non solo inchiodato al proprio tavolo, con gli «occhi gonfi di insonnia», ma all’occasione pure durante una gita in bicicletta, redigendolo «in una stalla, sotto la pioggia, su una pubblica piazza», ripescandone fogli finiti nel fango, pronto se necessario a ricominciarlo, impermeabile alle distrazioni e quasi anche alle emozioni. Però, la sua applicazione forsennata non implica quell’incompatibilità totale tra vita e scrittura che la letteratura mette in scena così spesso; al contrario, Dubreuilh è «imperiosamente vivo»: sia le sue opere narrative, sia il suo pensiero politico derivano da uno sterminato amore per il mondo e dal conseguente desiderio che «tutti gli uomini ne abbiano largamente la loro parte». Nondimeno, il suo non è affatto un ruolo edificante; per più ragioni.

Innanzitutto, la sua concentrazione sui propri scopi lo rende insieme indispensabile e opprimente: sua figlia Nadine è animata dalle idee che lui le ha inculcato, ma anche frustrata per non aver soddisfatto le sue incalzanti aspettative; sua moglie Anne gli rimane legatissima, ma con l’amara certezza di non contare per lui quanto «della carta e del tempo per scrivere»; Henri, dopo aver contestato il suo silenzio sui campi sovietici, gli si riavvicina, seguita a ritenerlo l’interlocutore più prezioso, ma non condivide né la sua abitudine ai compromessi della politica né la sua inflessibile tenacia.

Inoltre, i suoi scopi falliscono e il senso stesso della sua energia appare dubbio. Dubreuilh accetta i finanziamenti di un industriale per mantenere in vita il movimento fondato, ma così ne compromette l’autonomia e deve infine rassegnarsi alla sua dissoluzione; ferito da questo scacco, dà una virata pessimista al suo saggio, teorizzando l’impotenza degli intellettuali e l’impossibilità di un’azione indipendente dai partiti. Poi si riprende, inizia un altro libro, promuove un settimanale in cui coinvolge Henri, spera di farne un punto di aggregazione della sinistra non comunista; ma non sa indicare la direzione dell’avvenire carico di incognite verso cui resta proteso; per spiegare la paradossale scelta di continuare a scrivere dopo aver argomentato l’inutilità degli scrittori, osserva semplicemente «Non si guariscono le manie dimostrando che non hanno senso»: il suo attivismo risulta, anziché bussola in grado di fornire un sicuro orientamento, scialuppa di salvataggio a cui aggrapparsi per una navigazione a vista.

Quando I mandarini uscì, i suoi agganci con la realtà calamitarono l’attenzione generale e furono enfatizzati a dismisura: i critici, tra l’altro, identificarono Dubreuilh con Sartre e Henri con Camus, per quanto le analogie fossero in effetti molto vaghe. Beauvoir, provando a chiarire a più riprese che il romanzo era una libera reinvenzione della sua esperienza e non una narrazione «a chiave», sottolineò che Dubreuilh era assai più vecchio di Sartre, e inoltre più chiuso, meno emotivo, soprattutto più prioritariamente interessato alla politica; ammise però che li accomunava un’uguale consacrazione al lavoro.
Un punto significativo. Consacrata al lavoro a sua volta, Beauvoir lo era però in modo meno radicale; per quanto presa dalla vocazione di scrittrice, aveva difficoltà (come racconta nella sua autobiografia) a conciliarla con il gusto di vivere compiutamente, di godere dell’esistenza in tutta la sua varietà e in tutti i suoi imprevisti. E la consapevolezza di questa difficoltà, acuita dal confronto con l’impegno più strenuo di Sartre, aleggia su tutta la sua produzione, ispirando diversi altri personaggi simili a Dubreuilh (compresi in romanzi precedenti ai Mandarini, come il regista di teatro Pierre dell’Invitata e lo scultore Marcel del Sangue degli altri, o successivi, come lo scienziato André dell’Età della discrezione): tutti appassionatamente votati alla realizzazione della loro opera, tutti al tempo stesso esempio galvanizzante e fonte di disagio.

Sono però personaggi che rifrangono lo stesso spunto senza approfondirlo: mai in primo piano, visti attraverso altre prospettive, non raggiungono spessore narrativo sufficiente. Probabilmente perché se Beauvoir tiene sempre a non plasmarli sul suo compagno di vita («mi ripugnava di dare in pasto al pubblico un’immagine di Sartre quale io lo conoscevo» dichiara), non vuole o non sa d’altronde dar loro una fisionomia davvero autonoma, da quella di lui del tutto differente; ma forse anche perché il rapporto problematico con il lavoro creativo è per lei un cruccio troppo intenso per essere esplorato appieno, per diventare argomento di questo lavoro stesso.

Incarnazione di un dubbio
Ma se le sue figure di lavoratori fanatici appaiono dunque variazioni su un tema sempre inseguito e mai interamente svolto, su un’«ossessione d’autrice» sempre incombente e mai abbastanza articolata, Dubreuilh è di certo la più interessante: perché – diversamente dai personaggi citati dell’Invitata, del Sangue degli altri e dell’Età della discrezione – rimanda non solo a un nodo autobiografico, ma anche a questioni ben più ampie. Come si è visto, trascina gli altri personaggi nel futuro senza però riuscire a prevederne il volto, seguita a lavorare ma temendo lui stesso che tale lavoro si sia ridotto a una fissazione priva di giustificazioni solide; dunque, restituisce l’atmosfera del secondo dopoguerra, il passaggio degli intellettuali dalla certezza di poter incidere a fondo sul consesso sociale alla frustrazione di vedere rapidamente ridimensionato il loro ruolo. E, soprattutto, incarna un dubbio complessivo, costantemente aperto, sulla valenza del lavoro intellettuale in assoluto, sul rischio di vederlo tradursi da slancio verso la realtà in riparo dal suo assalto, da impegno volto a sollecitare le coscienze a mezzo per anestetizzare quella propria, da piattaforma di intesa collettiva a ripiegamento autoreferenziale, vizio d’élite.