Dopo l’autocritica e con l’occhio proteso su sondaggi non entusiasmanti, Renzi intende tarare diversamente tono e contenuti della campagna elettorale sul referendum costituzionale. Alle sue spalle, più che il guru della comunicazione Jim Messina, si staglia la figura Giorgio Napolitano, da lui esplicitamente riconosciuto come il padre della “riforma”. Basta con la personalizzazione, quindi, e avanti con i problemi del paese.

Per farlo Renzi ha però bisogno di tempo. Per questo anche l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa feriale si è chiuso senza fissazione della data del voto referendario. Probabilmente in una delle due ultime domeniche di novembre. In mezzo c’è la possibilità che la legge di stabilità abbia almeno scavallato il voto di uno dei due rami del parlamento.
Evidentemente Renzi pensa a qualcosa di succoso per smuovere la crescente apatia degli elettori nei suoi confronti. Qualcosa che non sia la bufala demagogica – smentita conti alla mano dalla stessa ragioneria di stato – sul risparmio derivante dalla deforma costituzionale da trasferire ai poveri.

Solo che le notizie sull’andamento dell’economia italiana – e non solo – non sono affatto buone. Siamo di fronte ad una nuova battuta d’arresto della tanto agognata crescita del Pil, che nel secondo trimestre dell’anno è rimasto fermo, esattamente come alla fine del 2014.

La famosa luce in fondo al tunnel non si vede o assomiglia a Tir che travolge le speranze di facili elargizioni per puntellare le sorti di un governo non più sulla cresta dell’onda dei consensi.

Non solo ma anche la flessibilità invocata in sede Unione europea è più incerta, e di dubbia efficacia, se l’economia stenta più del previsto e il debito pubblico aumenta. L’obiettivo di crescita del 1.2% per il 2016 è già cancellato dalle stesse dichiarazioni ministeriali. E infatti, il governo già prevede di restringere la borsa.

Come al solito le prime vittime sono i pensionati. Dopo un eloquente studio del Sole24Ore persino i dirigenti sindacali più attratti dal carisma del premier, lamentano una cronica carenza di fondi per potere mantenere le promesse incautamente avanzate. In effetti in appena 1,5 miliardi di euro, secondo le più recenti anticipazioni del governo, non ci può stare troppa roba.
Soltanto la riforma Ape, ovvero quella relativa alla possibilità di anticipare l’andata in pensione, dovrebbe costare almeno 600 milioni di euro.

Un calcolo puramente indicativo ma improntato al ribasso, che quindi fa già prevedere che le penalizzazioni per i potenziali pensionati possano risultare alquanto sostanziose, incrementando il livello di indebitamento dei singoli e delle famiglie.

Ma anche se quella cifra fosse credibile, e non lo è, resterebbe in ogni caso meno di un miliardo di euro per tutta una serie di misure, tutte necessarie e lungamente attese: dall’ottavo tentativo di salvaguardia per gli esodati, alla “Quota 41” per i lavoratori precoci, passando per una estensione del concetto di “usura” nella prestazione lavorativa e una riduzione oppure cancellazione dell’onerosità delle ricongiunzioni.

Intanto la situazione delle banche continua a ballare sul bordo di un precipizio, malgrado tutte le ripetute assicurazioni sulla solidità del sistema bancario italiano.

Renzi aveva nei giorni scorsi cantato vittoria per avere trovato «una soluzione di mercato» per salvare il Monte dei Paschi di Siena. La spavalderia gli derivava dalla presenza di grandi nomi del mondo finanziario nel contratto di pre garanzia per l’aumento di capitale.

Ma JP Morgan per prima fa sapere che è pronta a sganciarsi se il premier non supererà la prova del referendum costituzionale. E viceversa: George Soros aveva già dichiarato che il governo italiano non avrebbe vinto la prova referendaria se non avesse prima risolto l’inghippo bancario.

Da ultima la nota mensile dell’Istat dimostra che la deflazione non si arresta. C’è sì una piccolissima frenata nel mese di luglio, ma questa è dovuta all’aumento dei prezzi connessi con il caro-vacanze, ovvero all’incremento stagionale di prezzi e tariffe nei trasporti e nei viaggi.

Per chi le fa, le vacanze sono più care, ma i consumi non ripartono. Tanto è vero che le vendite nella grande distribuzione non superano che di un misero 0,3% il volume raggiunto nel corrispondente periodo dello scorso anno.
Ma dove la deflazione fa più danni è nel settore agricolo (le quotazioni del grano duro sono calate del 42%).

La Coldiretti stessa lo sottolinea così: «Oggi gli agricoltori devono vendere tre litri di latte per bersi un caffè o quindici chili di grano per comprarne uno di pane». Sembrano parole d’altri tempi, ma sono dell’altro ieri. Naturalmente Renzi dà la colpa alla cattiva congiuntura europea, aggravata dalla Brexit.

In effetti la sola politica monetaria e tantomeno quella dei tassi negativi non può risollevare il continente dalla crisi. Ma la renzinomics ne è parte integrante e non un’alternativa.