I palestinesi commemorano un nuovo anniversario dell’occupazione militare israeliana. Non è un rituale. I primi di giugno di ogni anno, dal lontano 1967, quando Israele catturò durante la Guerra dei Sei Giorni Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est (oltre al Golan siriano e al Sinai egiziano poi restituito), sono l’occasione per valutazioni e riflessioni. Sui passati 47 anni e soprattutto sul futuro e la possibilità di raggiungere la libertà e la piena autodeterminazione. Tra i temi in dicussione, anche tra gli analisti israeliani, c’è il possibile inizio di una terza Intifada palestinese.

Ne abbiamo parlato con il sociologo Jamil Hilal, ricercatore universitario, autore di apprezzati testi in arabo e in inglese e collaboratore di pubblicazioni regionali e internazionali.

L’occupazione israeliana compie 47 anni. Un percorso segnato dalla prima e dalla seconda Intifada, da negoziati inutili e accordi non rispettati, da migliaia di morti e feriti, da una colonizzazione israeliana incessante e dall’ambiguità internazionale verso i diritti dei palestinesi…

Il quadro è questo. Aggiungo che con la copertura degli Accordi di Oslo (1993), Israele in questi anni ha messo in piedi un sistema di apartheid in Cisgiordania e Gaza volto a negare in modo sistematico i diritti collettivi dei palestinesi. Un sistema che oltre al controllo del terra e alla colonizzazione (dei territori occupati, ndr) mira anche all’appropriazione delle risorse naturali palestinesi e a negare al popolo occupato una economia indipendente. L’area C (il 60% della Cisgiordania, sotto il controllo totale di Israele, ndr) viene svuotata dei suoi abitanti palestinesi per far posto ai coloni israeliani. Oggi, venti anni dopo la firma di Oslo, c’è un colono ogni quattro palestinesi in Cisgiordania e la frammentazione del territorio attraverso la costruzione di insediamenti israeliani e di reti stradali per gli occupanti, sta rinchiudendo i palestinesi in “bantustan”. Senza dimenticare la violenza quotidiana dell’occupazione, su adulti e bambini.

Questo quadro unito al fallimento, non inatteso, degli ultimi negoziati, crea le condizioni per una nuova rivolta, la terza Intifada. Tanti la danno imminente, se ne parla e se ne discute anche tra gli israeliani ma sul terreno accade ben poco. Perché?

Perché un processo in corso in Cisgiordania e Gaza impedisce che la brutalità dell’occupazione inneschi la terza Intifada: la diffusione dell’individualismo, il declino della mobilitazione politica, l’aggravarsi delle disuguaglianze economiche e sociali. Un numero crescente di palestinesi è sempre più impegnato a proteggere e promuovere i propri interessi a danno degli interessi collettivi

Da cosa deriva l’individualismo?

Da una serie di fattori. Il primo e più importante è l’adozione della politica economica neoliberista da parte dell’Autorità nazionale palestinese. L’Anp è nata nel 1994 al culmine dello sviluppo globale del neoliberismo, promosso dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Il neoliberismo è la filosofia economica dei principali paesi donatori dell’Anp e di alcune importanti Ong. All’interno di questo, al settore privato è stato garantito il ruolo di definire i contorni dell’economia palestinese, che si fonda su una forte dipendenza dagli aiuti esterni e dal versamento da parte di Israele dei fondi (palestinesi) che provengono dal raccolta di tasse e dazi doganali. Questa dipendenza non solo ha accresciuto la vulnerabilità dell’Anp ma ha reso contrarie ad ogni cambiamento molte decine di migliaia di dipendenti pubblici palestinesi timorosi di perdere la loro fonte di reddito. A ciò si aggiunge il ruolo delle Ong palestinesi, che si sono moltiplicate dopo Oslo. Le Ong principali sono dipendenti, proprio come l’Anp, dai finanziamenti di donatori interessati solo a far proseguire il cosiddetto «processo di pace» generato da Oslo. In molti casi le Ong hanno sostituito le associazioni di volontariato, la base sindacale e le organizzazioni sociali che per tanti anni sono state essenziali per la difesa degli interessi collettivi, politici ed economici.

Quanto incide il declino dell’influenza dei partiti politici?

Molto. È stata fatta passare tra la gente l’idea che la creazione di istituzioni ufficiali in sostituzione del ruolo svolto dalle vecchie organizzazioni politiche avrebbe velocizzato la nascita di uno Stato palestinese indipendente. Invece questo Stato non è all’orizzonte e la popolazione deve fare i conti con la macchina burocratica dell’Anp. Alla cultura politica dei «fratelli e compagni» esistente prima di Oslo si è sostituita quella della gerarchia e delle personalità inavvicinabili: direttori generali, alti ufficiali e funzionari con privilegi speciali. Questo ha diminuito la capacità di tutte le organizzazioni politiche, anche dei due principali movimenti, Fatah e Hamas, di mobilitare la popolazione contro l’occupazione.

Quanto pesa nell’individualismo diffuso il ruolo della classe media palestinese legata alle istituzioni dell’Anp?

Parecchio. Si tratta di tante persone che lavorano per i ministeri o per il settore privato, nei servizi, dalle comunicazioni alle banche. La classe media palestinese sorta dopo Oslo è fortemente contraria a scossoni politici e ancora di più a una nuova Intifada. Sa che lo stop ai finanziamenti (dall’estero) all’Anp significa lo stop del suo reddito. E non può accettarlo, persino di fronte ad un interesse nazionale supremo. Anche perchè il modello consumista generato dal liberismo economico ha spinto molte famiglie della classe media a chiedere mutui e prestiti bancari per comprare case, auto costose e mobili di lusso. Un blocco dei salari perciò avrebbe conseguenze disastrose per queste famiglie che, pertanto, chiedono stabilità e continuità.

Vuol dire che i lavoratori a basso reddito e i disoccupati al contrario sono pronti a partecipare a una nuova Intifada?

Solo in teoria, perché i lavoratori a basso reddito sono impiegati in piccole strutture produttive, sono divisi tra di loro, senza sindacati veri a proteggerli e mobilitarli. E’ meglio protetta la classe media che fa riferimento agli ordini professionali.

Gaza, è da sette anni sotto il pieno controllo di Hamas, quanto assomiglia alla Cisgiordania?

Tenuto conto delle differenze davanti agli occhi di tutti e generate dall’occupazione israeliana, la situazione di Gaza ha molti punti in comune con quella della Cisgiordania. A Gaza la struttura burocratica governativa ha assorbito Hamas, modificandone le caratteristiche originarie. Tuttavia è nella politica economica la principale somiglianza. Come l’Anp il movimento islamico sostiene il liberismo economico, non lo ha mai messo in discussione. Hamas è favorevole a una economia di libero mercato e, di conseguenza, anche la politica svolta dal suo governo a Gaza ha favorito la diffusione dell’individualismo a scapito della collettività.

Ha vinto la normalizzazione dell’occupazione?

No, i palestinesi non accetteranno mai di vivere sotto il tallone di Israele ma quanto abbiamo descritto riduce in modo significativo la possibilità di rilanciare una opposizione effettiva all’occupazione. Da tempo ormai le manifestazioni di ribellione si concretizzano solo in proteste settimanali organizzate dai comitati popolari nei villaggi rurali che si battono contro il Muro (costruito da Israele in Cisgiordania). Manifestazioni che tuttavia non coinvolgono i grossi centri urbani dove risiede buona parte della popolazione. Un sondaggio pubblicato lo scorso novembre è illuminante: il 60% dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania si attende una nuova Intifada ma solo il 29% si dice pronto a prendervi parte.