In tempi di restaurazione letteraria – quando ormai, facendo evidentemente leva su una certa sordità del lettore e fidando nella generale e diffusa diseducazione al sentimento musicale della frase, ci si affida per convenienza e cinismo al culto violento dell’intreccio, e meglio ancora se condito da qualche colpo di scena magari dissimulato e reso sotto forma di epifania o di conato realistico, come se un tale incedere fosse non tanto l’ombra bensì la sostanza piena della realtà: tutto va detto, in altri termini, tutto va significato in maniera esplicita, eclatante e rumorosa –, in epoca di smaccata regressione, dunque, andrà segnalato a merito quel carico non comune e non convenzionale di ossessione linguistica che Arno Camenisch (classe 1978, nato a Tavanasa, nel Cantone dei Grigioni) porta sulle proprie spalle e che poi da lì, con costanza e meticoloso puntiglio, fa scivolare sulle pagine dei suoi romanzi impastati di tedesco e di romancio e così pieni di aperture e di segnali semantici che trovano infine pronuncia netta, fluida come lava vulcanica, compatta, concentrata e chiusa nello spazio, insieme rarefatto e pietroso, dentro cui si muove una piccola comunità più che una piccola patria, una comunità composta da figure e da nomi e non da personaggi veri e propri.

Lasciati a parte dalla storia (quella appunto con l’iniziale maiuscola) e dal suo divenire tumultuoso e caotico, essi si esercitano nella ripetizione di gesti e di parole e di manie immutabili. Ognuno lascerà di sé e del proprio passaggio sulla terra appena il ricordo di una fissazione o di un carattere. Coloro i quali li hanno conosciuti, finché vivono, avranno memoria sufficiente a trattenerseli accanto, quei morti, e a lasciarsene trattenere. Compagni, sempre, sono i morti e la meteorologia, il rimbombo dei tuoni, pioggia che non sembra voler smettere mai, la neve, il vento, il sole che si nasconde per mesi. L’«epica alpina» (in questo modo è stata definita) di Camenisch l’abbiamo vista finora svolgersi attraverso tre titoli: Sez Ner del 2009 (pubblicato l’anno successivo da Casagrande), Dietro la stazione del 2010 e Ultima sera del 2012, entrambi editi in italiano nel 2013 da Keller, che aggiunge ora al suo catalogo La cura (pp. 102, euro 12,00), sempre nella veramente ottima versione di Roberta Gado, la quale è ormai a ogni effetto la voce di questo scrittore arduo e nutriente nella nostra lingua, tanto da non riuscire a immaginarcene da lettori una diversa.

Si è accennato alla lacerante ossessione linguistica di Camenisch. Ebbene, proprio in appendice a Sez Ner veniva riportata una lunga conversazione tra l’autore e la sua traduttrice nella quale si spiegava, in riferimento a quel testo, la portata di un metodo di lavoro.
Afferma Camenisch: «Ho scritto prima il testo tedesco e, una volta finito, l’ho riscritto in romancio partendo da altre premesse ritmiche e sonore. Nella terza fase ho poi lavorato di lima sulle due versioni in parallelo, concentrandomi sull’eco originata dalla forma dialogica, sui rimandi tra una versione e l’altra». Possiamo facilmente immaginare che un simile radicale avvicinamento alla scrittura non riguardi soltanto quel racconto aspro ed estremo – laddove il linguaggio parlato, pulsante di dialettismi, si alterna e anzi si mescola a un’alta temperatura lirica, così producendo un iperbolico, verticale cortocircuito – ma sia piuttosto una costante dell’intera trilogia e a seguire, ad essa con forza connesso, della Cura, il cui titolo ha tra l’altro, o almeno così pare, una sottile valenza polemica, a contrasto con la caratura ascetica ed esoterica dell’omonimo racconto di Hermann Hesse.

Nel libro di Camenisch infatti non è possibile alcun rimedio al dolore e alla fatica di abitare il mondo. L’accumularsi degli anni trascorsi insieme dai due anziani coniugi, partiti per un viaggio premio di alcuni giorni in un lussuoso hotel a cinque stelle situato nel cuore sfolgorante dell’Engadina, non appare come esperienza salvifica; piuttosto come inclinazione alla rinuncia e alla disillusione. Il lettore non sa da dove giungano e dove torneranno dopo la vacanza, e d’altronde Camenisch non nomina mai il nome del villaggio in cui si svolgono i piccoli eventi della trilogia.

Passano invece, in queste pagine, le immagini di una vita in comune e quelle della vita precedente il loro incontro. Passano ancora nomi, antichi e passeggeri amori, lampi di volti che non ci sono più, rimorsi e rimpianti, insomma un rammemorare lieve e sfuggente che, come di consueto accade a questo autore, corre per paragrafi brevi, per istantanee, per intarsi. Certo, le sensazioni e le reazioni della donna e dell’uomo sono assai diverse – lei ha voglia di provare a vivere fino in fondo la nuova e inattesa esperienza di quei giorni di svago ed esorta il compagno a combattere l’inerzia e la rinuncia; in lui, con una gamba zoppicante e l’amplifon all’orecchio, vince soprattutto il desiderio di tornare a casa e anzi egli la casa ha un po’ tentato di portarsela dietro, chiusa in un sacchetto di plastica dal quale continua a tirar fuori gli oggetti più assurdi e inverosimili – ma pure, nella loro andatura, nei loro dialoghi, nel loto reciproco rimbeccarsi, ogni cosa rimanda ad una comune tensione all’immobilità e allo scomparire.
Nelle ultime pagine i due personaggi sembrano smarrirsi nel bosco mentre incombe un violento temporale. Ma il loro tono non muta: «E adesso, chiede lui. Tuona. Sei tu che hai voluto prendere la scorciatoia del bosco, dice lei. Non è vero, dice lui, è stata un’idea tua. Prende la pinza a sonagli dal sacchetto di plastica. Cos’è, chiede lei. Una pinza a sonagli, dice lui, era in offerta a metà prezzo, senti come suona. Fa andare i sonagli. Ma per cos’è, chiede lei. Per spaventare i lupi, in questi boschi ce ne sono. E fa andare i sonagli».

Sempre, in tutti i suoi romanzi, quello di Arno Camenisch è un universo allarmato e sotto minaccia. Nel suo gran teatro montano si assiste a un rovesciamento infernale dell’elegia, a un autentico disastro dell’ordine bucolico e di natura. Un invisibile convitato di pietra, al pari di un ospite inesorabile, presiede a queste georgiche alpestri. Così in Sez Ner – che è il nome di un vetta che in romancia significa «sede del diavolo» o anche il «diavolo in me» – oppure nella voce narrante e nello sguardo del bambino di Dietro la stazione o, infine, in Ultima sera, quando gli abitanti del villaggio si ritrovano seduti intorno a un tavolo dell’osteria che sta per chiudere i battenti. Gli abitanti parlano di sé, si raccontano e, nel mentre, evocano le povere gesta di chi li ha lasciati, li chiamano, li strattonano, li riportano in vita fosse solo per un gesto o per una postura. Come in una cerimonia, in un conclave estremo e finale. O, ancora meglio, come nel giorno del giudizio. Che poi fu innanzitutto questa la funzione della letteratura nell’ormai remoto Novecento, quel secolo grande e terribile.