È tra le «zone rosse», ma è un rosso di vergogna. Malgrado i contagi giornalieri siano complessivamente ben inferiori rispetto ad altre regioni, la Calabria chiude per Covid-19 ma soprattutto chiude per malasanità. L’indice Rt è sopra l’1,5, gli ospedali mancano, le terapie intensive sono poche e già piene.

Ma questo è un disastro che parte da lontano. La nuova bozza del decreto Calabria, elaborata lunedì scorso dal governo, prolunga di un altro triennio il commissariamento iniziato 10 anni fa. Fino a nuova nomina, pieni poteri confermati al generale Saverio Cotticelli e a manager calati da Roma o dal nord. Saranno supportati dall’Agenzia nazionale per i Servizi sanitari.

La gestione pubblica fallimentare dura da almeno trent’anni. Consolidata la subordinazione dei manager della Sanità alla politica, soffocante il «condizionamento ambientale» da parte di ‘ndrangheta e soggetti occulti (le aziende sanitarie di Reggio e Catanzaro sono state commissariate per infiltrazioni mafiose), la sanità a queste latitudini è stata depredata, vessata, devastata, per poi fare ingrassare i privati.

Nella sola provincia di Cosenza, sono attive 158 tra cliniche e residenze private che percepiscono più di 20 milioni di finanziamenti annui. La commissione d’accesso all’Asp cosentina, istituita tra 2011 e 2012, ha scoperto che per farsi pagare le prestazioni dall’Azienda sanitaria provinciale, le cliniche dovevano solo consegnare fatture contenenti generiche descrizioni delle prestazioni e dei servizi erogati.

L’esodo dei malati costa carissimo. Nel solo 2017 la Calabria ha versato 317 milioni alle strutture sanitarie del resto d’Italia, almeno 50 dei quali, tra prestazioni ambulatoriali adattate con la forza a ricoveri, chemioterapie pagate illecitamente quasi il doppio, e pazienti non realmente residenti, sono finiti nelle casseforti di altre regioni.

Per decenni, nel settore pubblico le nomine di vertice sono state decretate dai governatori regionali in base a fedeltà; scandalosi i famigerati concorsi a primario, non autorizzati oppure definiti quasi sempre per favorire i propri clienti politici, senza effettiva verifica dei curricula e perfino in mancanza dei relativi reparti. Nell’aprile del 2019 il governo Lega-5S affidò alla ministra della Salute Grillo il ripristino dei «livelli essenziali di assistenza».

Furono stanziati 472.500 euro annui per il 2019 e il 2020. Agli enti del servizio sanitario della Regione Calabria fu affidato il compito di gestire «esclusivamente degli strumenti di acquisto e di negoziazione aventi ad oggetto beni, servizi e lavori di manutenzione messi a disposizione da Consip». Ottantadue i milioni destinati all’ammodernamento tecnologico.

Ma la «cura» non ha funzionato e si è giunti alla scorsa estate, quando malgrado la certezza di una seconda ondata del virus, la giunta regionale di destra ha snobbato la gestione del sistema sanitario. Avrebbe dovuto rimpinguare il numero delle esauste terapie intensive ma non l’ha fatto. Non sono stati riaperti gli ospedali periferici. Nessuna risorsa è stata destinata agli ospedali di Cariati, Trebisacce, Praia, Mormanno, San Marco Argentano, Mesoraca, Chiaravalle, Locri, Scilla e Siderno. Utilizzandoli come centri Covid, avrebbero permesso agli attuali nosocomi di garantire assistenza medica per altre gravi patologie. Ma tutto ciò non è avvenuto. E così la Calabria deve fermarsi.