Ha ascoltato un nuovo, ennesimo, endorsement da parte di un «padre del Pd» nei confronti di Paolo Gentiloni, quello di Walter Veltroni domenica a Roma. Ha sentito la platea del Teatro Eliseo spellarsi le mani all’indirizzo dei due, insieme sul palco: inutile negare che nella sempre più calda simpatia della base dem verso l’attuale premier c’è anche l’annuncio di bufera nei confronti del segretario che ha condotto il partito alle secche di questi giorni. E così ieri Matteo Renzi a una domanda di SkyTg24 nell’ipotesi (realistica) di un doloroso responso delle urne ha riposto un chiaro: «Non ci sarà nessun passo indietro. E trovo sconcertante che tutto il tema della campagna elettorale sia su quello che faccio io. Il punto è: cosa fa l’Italia nei prossimi anni?». Non serve la traduzione: il segretario non si dimetterà, a prescindere dal risultato elettorale.

L’APPUNTAMENTO delle politiche nel Pd si consuma come un congresso interno. A colpi di dichiarazioni di consenso a Gentiloni che significano prese di distanza dal segretario. I malumori nel gruppo dirigente restano (più o meno) lontani dai taccuini e dalle telecamere. Ma la composizione delle liste ha lasciato scontenti (è un eufemismo) tutti i non renziani. Un risultato scarso sarebbe il colpo definitivo. Il presidente della Puglia Michele Emiliano, il più esplicito, auspica l’indicazione di Gentiloni come candidato premier e chiede «una nuova fase» per il dopo voto. L’area di Andrea Orlando si è chiusa in un mutismo che non reggerà oltre il 5 marzo. Dove, per l’immediato, ci sarà però da far rispettare la promessa di non accettare un governo di larghe intese con Berlusconi. «Adesso pensiamo a vincere», liquida la questione anche Dario Franceschini.

Ma se il gruppo dirigente non fa polemica, nei territori non sono mancati i contraccolpi pesanti già in campagna elettorale: dalla fuoriuscita dei 14 dirigenti della minoranza a Bolzano contro la candidatura di Maria Elena Boschi alla protesta contro «la dinastia De Luca» in Campania fino ai «Partigiani del Pd» di Palermo che hanno già convocato un’assemblea per l’indomani del voto.

L’IDEA DI UN CONGRESSO anticipato serpeggia. Un’idea velleitaria, visti i numeri degli organismi dirigenti del Pd. Ma per ora è un periodo ipotetico dell’irrealtà. «Il congresso ci potrebbe essere solo con le dimissioni del segretario», ragiona un dirigente dem. Quelle dimissioni che ieri ha fatto intendere che non darà. «Quindi il tema non si pone», è la conclusione. Provvisoria però.

INTANTO PER RECUPERARE i consensi in caduta libera Renzi punta sul bilancio dei governi del Pd (Letta, il meno citato, Renzi e Gentiloni), rottamata ormai definitivamente la vecchia sfida personale dell’uno contro tutti, quella che portò al disastro del referendum costituzionale: «La squadra è il nostro leader», dice davanti agli imprenditori di Assolombarda, «il segretario del Pd sono io, il premier è Gentiloni, il ministro dell’Economia è Pier Carlo Padoan. Questa è la serietà». È convinto che il problema sia solo quello di aver sbagliato lo storytelling: «Se io fossi l’ad di un’azienda, porterei dei risultati economici positivi: forse mi licenziereste come direttore marketing per come ho comunicato», scherza.

POI PROVA A NEGARE che le cose vadano male, anzi: «Il Pd è già il primo partito in uno dei due rami del Parlamento, non posso dire quale, nell’altro siamo a una incollatura», dice poi da Brescia, «La partita sul proporzionale è con il M5s, vedono i sondaggi e tremano perché temono la remuntada». Il senatore Esposito più tardi «rivela» che la camera in cui il Pd sarebbe avanti è il senato. Una tattica classica, anzi ormai consumata, quella di galvanizzare gli elettori facendo credere di essere a un passo dalla vittoria. Burian, che azzoppa la giornata elettorale di molti leader, non lo ferma. «L’operazione primo posto è alla nostra portata», twitta. I sondaggi non possono essere resi pubblici, ma non sembrano confermare l’ottimismo del leader Pd.

ALTRO GRANDE CLASSICO degli ultimi giorni di campagna, l’appello al voto utile scagliato contro gli ex di Liberi e uguali: « Chi vota per il partito di Grasso e D’Alema non fa vincere gli ideali marxisti-leninisti o rivoluzionari, fa vincere la Lega», dice, «A Milano o passa uno del Pd o vince uno della destra, tertium non datur». Dura la replica di Laura Boldrini di Leu (ieri il comizio di Grasso a Napoli è stato sconvocato per il maltempo): fa vincere la destra chi insegue la destra, « Da sinistra si è fatta una politica che ha aiutato la destra. Il Parlamento aveva dato la delega al Governo per cancellare il reato di clandestinità, ma il Governo Renzi ha deciso di non darle seguito perché l’opinione pubblica non avrebbe capito», «C’è un problema di subalternità politica e culturale nei confronti della destra».